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Un atomo di verità, un atomo di politica.

Un’attempata signora con un cappotto grigio raggiunge la prima fila di sedie di plastica con l’aiuto di un deambulatore, c’è suo marito ad aspettarla e a darle una mano per sedersi. Davanti a loro c’è un cartellone rosso con il simbolo della Feltrinelli e soprattutto ci sono due poltroncine vuote dalle quali pochi minuti dopo parleranno Giuseppe De Tomaso, direttore della Gazzetta del Mezzogiorno, e Marco Damilano, direttore dell’Espresso che presenta il suo ultimo libro “Un atomo di verità. Aldo Moro e la fine della politica in Italia”. Il pubblico che assiste alla presentazione del libro ha in larga maggioranza almeno sessant’anni, la minoranza ne ha meno di venticinque: il salto generazionale è notevole, mancano le generazioni di mezzo, quelle che almeno in teoria rappresentano la classe dirigente italiana. Tra gli anziani spettatori ce n’è uno in giacca e cravatta, ha portato una copia della Gazzetta datata 17 marzo 1978 con l’annuncio del sequestro del Presidente della Democrazia Cristiana: è un ex attivista della DC barese, spiega, e ha un archivio con i giornali dell’epoca. Ciò che più mi sorprende è che ognuno di questi senescenti signori conserva un ricordo preciso e indelebile di dove fossero e di cosa stessero facendo la mattina del 16 marzo 1978 – le edizioni straordinarie dei telegiornali, le telefonate spaventate, il drammatico senso di insicurezza e impotenza. L’immediato paragone che mi sovviene è quello dell’Undici Settembre, quando all’improvviso il Tg3 interruppe una puntata della Melevisione per comunicare il terribile attentato.


«È un libro dolce» afferma una signora seduta dietro di me, e ripete lo stesso commento alla fine della presentazione, quando Marco Damilano si intrattiene a firmare le copie del suo lavoro. E in effetti “Un Atomo di Verità” è un libro meravigliosamente dolce, delicato, rispettoso – c’è spazio per la cronaca, per la biografia, per l’autobiografia. È fondamentale l’autobiografia, per raccontare il Caso Moro: esso è la storia di un’intera Nazione, è la storia di tutti, ed ognuno ha quindi la sua storia ad esso legata.

Nel caso di Marco Damilano, il primo ricordo di Aldo Moro è al mattino, in una chiesa, prima che suo padre lo accompagnasse a scuola:

“La 132 amaranto saliva agitata verso Monte Mario, ma a un certo punto papà frenò e accostò. «Vieni, ti voglio far vedere una persona importante,» mi disse. C’erano macchine grandi in doppia fila, salimmo le scale di una piccola chiesa, entrammo dentro, mi feci il segno della croce, come mi avevano insegnato. «Guarda. Quello è Moro,» mi sussurrò papà, e mi indicò un signore. E allora lo vidi. Di spalle, tutto vestito di scuro, inginocchiato sul banco, rivolto verso l’altare. Non sapevo chi fosse. Era Moro, una persona importante, mi aveva detto papà, e tornai a guardarlo. Era la prima persona importante che vedevo da vicino in vita mia. Aldo Moro. In ginocchio a pregare.”

A posteriori, MD, riflettendo su questo episodio, riconduce quel gesto al senso del limite, “il limite del suo potere” – un’umiltà non strategica, non sensazionalistica, non elettorale, ma umana.
Un altro incontro, questa volta solo sfiorato, tra Damilano e Moro è l’aneddoto che apre il libro: mezz’ora prima che le Brigate Rosse irrompessero con ferocia nella vita politica italiana sparando sull’auto di Moro e uccidendo i componenti della sua scorta, il pullman che conduceva ogni giorno il futuro giornalista a scuola passava per via Fani – il luogo del massacro, del mistero e delle oscure presenze. Seguirono 55 giorni di apprensione nazionale e di dibattito politico: prevalse non il partito della fermezza, ma quello dell’immobilismo – «si decise di non decidere, basti pensare che né il Parlamento né la Democrazia Cristiana si riunirono davvero per discutere». Dopo quei 55 giorni, il 9 maggio 1978, viene rinvenuto il cadavere di Aldo Moro nel bagagliaio di una Renault 4 parcheggiata in via Caetani, a metà strada tra la sede della DC e quella del PCI. E poi ancora quarant’anni di indagini, di Commissioni Parlamentari di Inchiesta, di rivelazioni a volte ingigantite e a volte ridimensionate, di processi – soprattutto – in cui nessuno ha pagato quanto dovuto, fino all’assurda attuale situazione in cui ex-brigatisti si destreggiano tra conferenze e libri speculando sul fascino della figura del romantico terrorista. È proprio per questo motivo che UADV non si sofferma solo sui drammatici eventi che vanno dal 16 marzo al 9 maggio del Settantotto («è ingiusto che dopo quarant’anni Aldo Moro sia ancora prigioniero delle Brigate Rosse» dice Damilano), il vero obiettivo del direttore dell’Espresso è restituire a Moro la sua dignità di politico, raccontandone la sua visione dell’Italia, del diritto, delle istituzioni anche attraverso gli scritti dello stesso Moro (sia le sue lettere dalla prigionia che le sue Lezioni di Filosofia del Diritto).

Attraverso gli scritti e la cronaca politica dell’epoca emerge un programma di Moro estremamente ambizioso: allargare le basi democratiche della Repubblica. È proprio su questo presupposto ideologico che si basa, proprio in quel nefasto Settantotto, l’inclusione dei comunisti in un esecutivo – come al solito – trainato dalla DC. Questo è il culmine di un processo iniziato molti anni prima e che coincide proprio con i primi tre governi con guida Moro (1963-1968): i governi del centrosinistra organico grazie al coinvolgimento dei socialisti. Sono governi nati dopo i drammatici eventi del governo DC+MSI di Tambroni (1960): Moro comprende la necessità di cercare nuovi interlocutori e promuove un asse coi socialisti, che garantiscono prima un appoggio esterno (governi Fanfani) e poi vengono direttamente inclusi nell’esecutivo. La caduta del governo Tambroni sarà una grande ferita per la destra profonda, radicale e radicata nel paese, che non perdonerà mai quest’affronto, e molte pagine di Damilano sono dedicate ai loro continui attacchi alla linea di Moro.

«Il Settantotto è un anno cardine,» spiega Damilano, «anche dal punto di vista simbolico: è a metà strada tra la contestazione del ’68 e la caduta del Muro di Berlino nell”89» e il tentativo di inclusione del PCI di Berlinguer nel governo da parte di Moro lascia trapelare anche uno scopo geopolitico di vasta portata: superare gli accordi di Yalta e i blocchi ben definiti che essi avevano creato. Da un lato c’era Varsavia, dall’altro l’Atlantico. Tra questi due estremi c’era l’Italia, frontiera geografica ma anche ideologica, casa al tempo stesso del Vaticano e del più grande partito comunista d’Occidente. E tuttavia né la NATO né l’URSS accettavano di buon grado il Compromesso Storico, un’intesa pienamente democratica che rosicchiava terreno su entrambi i campi. Eppure la strada del Compromesso Storico era l’unica possibile, dopo una tornata elettorale (1976) che aveva consegnato due visioni dell’Italia ben precise: la DC prese il 38,71%, il PCI il 34,37%, l’affluenza alle urne era stata del 93,40% – con un risultato così netto era obbligatoria una convergenza. «Moro aveva coniato la formula i due vincitori,» dice MD, «ed in effetti insieme avevano raccolto più del 73% dei consensi. È paradossale che questa stessa formula venga ripetuta oggi per riferirsi a un possibile asse M5S-LEGA, che hanno preso il 51% con il 73% di affluenza.» E non è questione di leggi elettorali, sembrano suggerirci gli scritti di Moro: “Gli strumenti elettorali sono false soluzioni per problemi politici. I problemi politici vanno risolti attraverso la politica”. La lezione di Moro è orientata in questo senso, è volta all’inclusione di tutte le spinte della società, anche se non propriamente condivisibili.

Progetti e ambizioni andate in frantumi il 16 marzo del 1978 alle 09:02 in via Fani, l’alba dei 55 giorni che hanno sancito la fine della politica in Italia. Tra le pagine dedicate al sequestro Moro ce n’è una che stimola in modo commovente l’immaginazione del lettore:

“[Le lettere di Moro dalla prigionia] A volte sono un fiume di caratteri impazziti, quasi a consumare ogni angolo, da ogni riga si può provare a ricostruire lo stato del prigioniero: ansioso, angosciato, furioso, addolorato. Nella lettera al Partito in un punto c’è uno sbaffo, laddove il prigioniero scrive: “La necessità di fare uno strappo alla regola della legalità…”; in altri punti lo sbaffo si ripete, come se sui fogli fosse caduto del liquido. «Potrebbe essere una lacrima, contiene sali di cloro e di potassio, ma anche la carta presenta quel tipo di sostanze» dice Di Sivo che non si avventura in ipotesi suggestive. Guardo a lungo in quel punto, in quella lettera, quella sbavatura che in ogni caso a quarant’anni di distanza ci dice qualcosa del suo autore, forse una goccia d’acqua, forse una mano passata sopra l’inchiostro, di sudore, di lacrime, di frustrazione, di disperazione.”

Ci appare un leader abbandonato, sacrificato non sull’altare della fermezza ma su quello dell’opportunismo politico. In altri casi c’è stata una trattativa con i brigatisti, perché non con Moro?, è la domanda che tutti si pongono. Tra i molti personaggi della politica dell’epoca, l’unico a cercare uno spiraglio per salvare Moro è Bettino Craxi – “in nome di un umanesimo socialista”. Proprio Craxi, il cui partito sarebbe stato tagliato fuori dalla vita politica se comunisti e democristiani avessero raggiunto l’accordo. Per una volta l’umanità, la solidarietà ha prevalso sul mero calcolo.
Damilano assume Craxi come metafora del compimento del disfacimento della politica italiana stravolta poi nel 1992 dalle vicende di Tangentopoli. MD procede per coppie opposte: dalla proverbiale lentezza e meticolosità di Moro al dinamismo craxiano, dal “Tribunale del Popolo” che ordinò la sentenza di morte per Moro ai Tribunali dello Stato Italiano che hanno giudicato Craxi, dal sequestro che ha frenato il presidente della DC all’alba del Compromesso Storico alle inchieste di Mani Pulite partite quando ormai il processo politico del Pentapartito era esaurito, dal “Non ci faremo processare nelle piazze” pronunciato da Moro nel 1977 dopo lo scandalo Lockheed alla chiamata in causa dell’intero sistema politico nel discorso sul finanziamento ai partiti pronunciato da Craxi in Parlamento il 3 luglio 1992.
Ciò nonostante, considerare la stagione del craxismo solo come il terreno su cui è germogliata l’inchiesta di Mani Pulite sarebbe una scelta infelice e ingannevole, «la storia probabilmente sarà più generosa della cronaca» aggiunge De Tomaso: l’ambizione per un progresso civile, economico e istituzionale ha avuto pochi precedenti e ancor meno successori.

Il tentativo di Moro di salvare la politica dal suo interno, attraverso la politica sembra proprio finito nel dimenticatoio. Ne sono testimoni, negli ultimi anni, le tendenze tecnocratiche e populiste e il progressivo allontanamento della popolazione dalla partecipazione democratica, che non è solo affluenza alle urne ma anche informazione e discussione:

“È stato in quell’angolo tra via Stresa e via Mario Fani che è finita in Italia la politica come leva privilegiata del cambiamento. In tutto l’Occidente le innovazioni di questi ultimi anni non sono state governate dalla politica, la politica le subisce passivamente, è apparenza di potere e non sostanza, è retorica, spettacolo, ha smesso di essere un orizzonte di senso collettivo in cui identificarsi. […] La politica non coltiva più la speranza, ma la paura dei cittadini e la loro rabbia. Genera la frustrazione negli elettori, perché promette quello che non riesce più a dare, e prova a guadagnare consenso sulla frustrazione che ha generato.”

Potrà servire poco, ma la storia di Aldo Moro raccontata da Damilano è un vero rifugio dallo sconforto; ci lascia in eredità l’esempio del lato migliore del Palazzo, di un politico in grado di conquistare 291137 preferenze nel suo collegio pur rimanendo restio alla demagogia e al protagonismo, ci lascia la pulsione verso una concreta inclusione istituzionale e sociale. “Datemi un milione di voti e toglietemi un atomo di verità e io sarò perdente” scriveva Moro durante la segregazione: fare luce intorno al Caso, restituirgli verità e dignità potrebbe già essere un punto di partenza, ma è impellente anche fare luce intorno al suo progetto politico, affinché Moro non sia solo un capitolo del manuale di storia che in quinta superiore non si riesce mai a studiare, ma una viva testimonianza di democrazia.


¹“E tuttavia, d’altra parte, ciò che bisogna dire, e che tutti sanno del resto, è che buona parte del finanziamento politico è irregolare o illegale. I partiti, specie quelli che contano su appartati grandi, medi o piccoli, giornali, attività propagandistiche, promozionali e associative, e con essi molte e varie strutture politiche operative, hanno ricorso e ricorrono all’uso di risorse aggiuntive in forma irregolare od illegale. Se gran parte di questa materia deve essere considerata materia puramente criminale, allora gran parte del sistema sarebbe un sistema criminale. Non credo che ci sia nessuno in quest’Aula, responsabile politico di organizzazioni importanti, che possa alzarsi e pronunciare un giuramento in senso contrario a quanto affermo: presto o tardi i fatti si incaricherebbero di dichiararlo spergiuro.”

Vito Ladisa

23 anni, studente di Filologia Moderna all'Università di Bari.

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