Letteratura

Guida alla lettura di “Bestie” di Federigo Tozzi

Prima parte:  Introduzione.

Federigo Tozzi (Siena 1883 – Roma 1920)

Sembrerà una frase elitista e provocatoria, ma i libri di Federigo Tozzi non sono per tutti. Non è necessario spiegarsi oltre, è un dato di fatto: non lo sono mai stati e non lo saranno mai. Nonostante i tentativi di avvicinare le grandi masse di lettori alla lettura di Con gli occhi chiusi o Tre Croci, Tozzi sembra essere un seme che non attecchisce. È ironico pensare che proprio nel 2020 si sarebbero dovuti celebrare i cento anni dalla sua morte. Era in programma una fitta rete di eventi, grazie ai quali si sarebbe potuto godere di un momento di vivace riscoperta, un incoraggiamento per il grande pubblico a toccare con mano un’opera spesso – ingiustamente – oscurata da quelle dei contemporanei Pirandello e Svevo, un oltraggio alla cesura didattica delle scuole che semplicisticamente tende a confinare Tozzi a quella congerie di scrittori minori primonovecenteschi. Ma così non è stato. Il Covid ha ristabilito gli equilibri naturali delle cose: l’anniversario è passato in sordina, soffocato dai bollettini della protezione civile; le celebrazioni sono state rimandate a tempi migliori, e i pochi eventi sopravvissuti alle norme ministeriali si sono svolti nel ristretto panorama senese. È vero: tra gli addetti ai lavori il nome di Federigo Tozzi è vivo e vegeto – si pensi all’edizione nazionale tuttora in fase di lavorazione –, ma anche lì, nei piani alti, la sua fortuna non è sempre stata costante: l’autore di Con gli occhi chiusi ha dovuto contare del sostegno di alcuni lumi della critica novecentesca (Borgese, Debenedetti, Baldacci e Luperini) prima di essere consacrato nel pantheon dei classici moderni. I lettori e gli ambienti senesi, invece, sembrano spesso celebrarlo come un atto dovuto, un omaggio campanilistico a un autore che a volte Siena la considerava asfissiante – una strana idolatria, perché Tozzi è Siena come lo è il Palio, i pici all’aglione e la Torre del Mangia. Consigliare i libri di Tozzi quindi è una sfida che ha un retrogusto piacevolmente masochistico, in virtù proprio della sua faticosa affermazione nel canone, dello svalutante spirito contradaiolo con cui è letto nella sua terra d’origine, di una risposta del grande pubblico quasi totalmente insignificante. Guidare il lettore per mano fin dentro la sua opera, come mi pongo di fare in questa sede, diventa addirittura un esercizio egocentrico e annichilito, un gioco consapevolmente fallimentare già in partenza. Le carte in tavola si complicano ancora di più se ciò che qui prendo in esame non è né un romanzo, né una raccolta di novelle, ma un libro che possiede uno statuto di genere sfumato, controverso. Mi riferisco a Bestie, una raccolta di sessantanove “prose” pubblicata per la prima volta per i tipi di Treves nel 1917. Tozzi quando scrive Bestie ha già dietro di sé una carriera attiva come novelliere e poeta e ha tra le carte alcuni romanzi ancora in stato di lavorazione. Chiunque leggendo – o semplicemente sfogliando – Bestie, però, può rendersi conto che ciò che ha in mano non è un libro come tutti gli altri. Anzi, fa gioco adoperare volutamente termini grigi – come “libro”, “opera” o “raccolta di prose”– per non incorrere in errori di designazione. La ragione sta nel fatto che la categorizzazione in un genere ben preciso creerebbe delle corrispondenze miopi e non esaustive per una produzione che è di per sé meticcia di nascita. Sono stati diversi, tuttavia, i tentativi che hanno cercato di comprendere cosa realmente fosse Bestie al momento della sua pubblicazione, e ancora con più difficoltà, dopo un secolo di rimpasti e sperimentazioni, cosa Bestie sia oggi.

Definire Bestie una raccolta di aforismi, come spesso è stato fatto anche da capisaldi della critica contemporanea (Luperini), esalterebbe sì la brevitas dei testi che la compongono, ma ignorerebbe le componenti narrative, descrittive e liriche insite nell’opera, di per sé inconciliabili col genere aforistico così come era stato ereditato dall’autore senese. Eppure, questo giudizio si è dimostrato molto volentieri difficile da sradicare, tanto che chiunque oggi su Wikipedia può leggere di Bestie e di aforismi nella stessa pagina. Le strade sono due: o Tozzi è riuscito visionariamente ad anticipare di decenni l’aforisma del secondo Novecento, che si avvale di contaminazioni provenienti da altri terreni di senso (come la narrazione, la citazione e il dialogo), dando vita a un prodotto totalmente di avanguardia per il suo tempo, oppure Bestie non è affatto una raccolta di aforismi. A rendere più convincente la seconda ipotesi è la totale assenza della matrice filosofico-riflessiva e del tono sapienziale che sono l’essenza distintiva del genere. Non bisogna dimenticare, inoltre, che Tozzi uno scrittore di aforismi lo è stato: mi riferisco a Barche capovolte, opera che è universalmente riconosciuta come raccolta aforistica e che quelle proprietà assenti in Bestie le contiene, nonostante qualche spunto di novità emerga già con evidenza. È vero: alcune prose di Bestie possiedono qualche accidente tipico del genere, che sia l’icastica incisività («So che una vipera ha morso uno che m’odia. Pari e patta») o i fulmen in clausula («Lo lascio stare: io sono Dio, ed egli è un solitario dentro una Tebaide»), ma non sono fatti abbastanza convincenti da condurci a chiudere con decisione Bestie in un genere che evidentemente non gli appartiene. A maggior ragione, se si consulta il Meridiano Scrittori italiani di aforismi a cura di Gino Ruozzi si può ben notare che lì dentro Tozzi compare solo in virtù di Barche capovolte, mentre Bestie è confinato nel paragrafo di presentazione assieme a tutto il resto della sua opera. Dobbiamo chiederci necessariamente, quindi, che cosa ha spinto Ruozzi a escludere Bestie dalla sua raccolta. Il curatore spiega nell’introduzione che il suo fine è presentare al lettore aforismi «scritti dai loro autori con l’intenzione di scrivere aforismi». Ed è questo il secondo punto focale: non solo Bestie non è una raccolta di aforismi perché non lo è per costituzione, ma soprattutto perché Tozzi aveva tutt’altro proposito. Su ciò che aveva in mente l’autore alla stesura della sua opera ne parlerò tra poco, basti ora dare per assodato che nello scrivere le sue sessantanove prose Tozzi non pensava affatto all’aforisma, se non per qualche suggestione, e definire Bestie dogmaticamente parte del genere significherebbe perdere il contatto con la realtà dell’autore e con la natura che lui ha prescritto per la sua raccolta.

O ciliegie, sapore del maggio!
Farei ridere se raccontassi quanto le amo, ora che non ho altro da amare. Ed io
per poco non mi crederei sciocco.
Ma la mia bocca è cieca; e non è fatta che per mangiare.
Mettete un piatto grande di ciliegie sopra la mia anima: non le lasciate troppo
maturare, perché le passere le beccano tutte.

In questo caso, sono quattro i fenomeni su cui bisogna soffermarsi:

1. L’attacco iniziale è costituito da un’invocazione (introdotta da «O»), che è un dispositivo che attraversa tutta la tradizione lirica sin dalle origini, dalla poesia melica;2 

2. L’io poetico – in altre parti evocato come «la mia anima» – emerge come punto di vista unico e imprescindibile. L’intero componimento descrive una percezione che passa dalle categorie del soggetto. Solo le passere che si manifestano nel finale sfuggono alla comprensibilità dell’io, perché «entità dotate di vita umana ed indipendenti»;

3. L’espressione «la mia bocca è cieca», dove la «è» copulativa accosta due parole appartenenti a campi sensoriali diversi, è riconducibile alla figura retorica della sinestesia;

4. «O ciliegie, sapore del maggio!» è un perfetto decasillabo di struttura anapestica. Non è l’unico caso in cui è possibile riconoscere le forme della tradizione metrica italiana: «Farei doventar buone anche le vipere» (finale di «Vorrei leggere come un ragazzo») è un endecasillabo sdrucciolo, inserito probabilmente in posizione di rilievo per costruire una chiusura del componimento più orecchiabile, più efficace; lo stesso vale per «E il pranzo finì bene quella volta», conclusione di «Con la mia moglie era un affar serio», che è un endecasillabo di sesta-decima.

Questo piccolo esempio può considerarsi rappresentativo per tutte le sessantanove prose, che sono densissime di richiami, strutture ed effusioni liriche che l’autore aveva già sperimentato nel suo apprendistato poetico. Sembra quasi che, in Bestie, Tozzi riesca a trovare la propria dimensione lirica, spogliandosi della «tentazione di un “grande stile” fondato sulla centralità del soggetto e sull’idea di una lingua poetica alta e letterariamente impostata, che caratterizza le prove giovanili»,3 pur essendo ancora legato al modello simbolista-crepuscolare.

Ma cosa è dunque Bestie? È una raccolta di poesie in prosa? Di frammenti lirici? La risposta è negativa, almeno se stiamo pensando al frammentismo vociano. Tozzi, come nota Luperini, «si propone, semmai, di portare lo sperimentalismo espressionista della generazione vociana nella forma della novella e, più in generale, alla narrazione stessa. Così, di fatto, con una mossa sola, egli prende le distanze sia dai frammentisti, sia dalla narrativa tradizionale e di consumo».4 Si tratta, quindi, di un movimento diverso: l’uso del frammento lirico tra gli autori de «La Voce» nasce dal rifiuto della novella e del romanzo, contaminati ormai da una letteratura stereotipata; Tozzi, invece, preferisce ricostruire e rinnovare partendo dal cuore stesso del genere. Definire Bestie una raccolta di frammenti lirici screditerebbe questa pulsione rinnovatrice, costruttiva e –soprattutto – alternativa alle posizioni vociane.

Di contro, la chiave di volta per capire lo statuto del genere di Bestie, a mio avviso, è proprio la novella. È possibile sostenere l’idea che queste sessantanove prosesiano partedel piano di sperimentazione, delle prove degli anni più innovativi della produzione tozziana – il cosiddetto “sessennio del Castagneto”, 1908-1914 – dove l’autore vive uno stato di profonda riflessione sulle sorti della novella italiana. Scrive, proprio nell’autocommento a Bestie, alcune osservazioni a riguardo:

Si dice che la novella è un poco in ribasso. E avversari, infatti, ne ha: sono, tutti o quasi tutti, quei giovani che non scrivono, almeno per ora, in nessuno dei generi letterarii consacrati dalle tradizioni. Ma pare che essi non saprebbero rispondere quale altro tipo di forma abbiano in mente di contrapporre alla novella; perché non basta il desiderio di rinnovare, se non si trovano gli elementi sufficienti […].

[…]

Invece perché la novella resista, ed abbia la sua ragione di esistere, si deve molto badare di non contentarsi dei soliti schemi scialbi e insignificanti.

[…]

Quindi noi vediamo giustamente sorgere, ovunque, tentativi letterarii che domani saranno i nuovi generi; e, forse, aiuteranno perfino la novella tradizionale, se essa non deve estinguersi, ad escire dalla sua mancanza di profondità.5

Ciò che colpisce, innanzitutto, è la profonda consapevolezza circa le condizioni d’esistenza della novella, accompagnata da una riflessione sui ritmi e le fratture che determinano il ciclo di vita di un genere. Tozzi, infatti, comprende il suo stato di crisi e l’urgenza di risposta a questo impoverimento, alla cementificazione limitativa che ha condotto il genere a delle precostruzioni svilite. Credo per questo che quando Fernando Marchiori, autore di uno dei più godibili commenti a Bestie, definisce velocemente le sessantanove prose tozziane «novelle in nuce» riesca a centrare profondamente l’identità intima dell’opera. La novella infatti è un «genere ben codificato a inizio Novecento, caratterizzato non solo da brevità e narratività, ma anche dalla tendenza a concentrare tutta la carica narrativa nel finale il più possibile incisivo e ad effetto».6 Così, in Bestie, l’animale contenuto in ciascun componimento rivela se stesso o il suo destino nella conclusione, spesso e volentieri nell’ultimo periodo. Tozzi consegna al lettore un consapevole orizzonte d’attesa: basta leggere poche pagine per capire che tutto il libro segue generalmente lo stesso schema, in cui, in sottofondo alla narrazione o la descrizione, si presagisce la comparsa di una bestia – che non è un’epifania, né è simbolo o allegoria di nulla, ma è un elemento disturbante che irrompe nel tessuto testuale e penetra rapidamente al centro della scena, oscurando tutto il resto. I moscerini, gli uccelli, i maiali sono l’apice di questa tensione che non ha bisogno di essere generata dalla narrazione, perché insita nella struttura genetica di ogni componimento. Le bestie di Tozzi sembrano sostituire quei fatti di cronaca nera che, per costituzione, concludevano le novelle di Vita dei campi di Verga o Le novelle della Pescara di D’Annunzio, cioè il momento di massima tensione, l’anima distintiva del genere. Le prose racchiuse in Bestie sembrano così richiamare il respiro della novella nella forma a Tozzi più cara: ci sono frammenti in cui ciò è più evidente, altri in cui lo è di meno, altri ancora dove la loro eccessiva brevità impedisce che ciò si manifesti, ma da una prospettiva globale, sì, Marchiori, nella sua introduzione canzonatoria “in barba ai critici”, nella sua analisi spontanea e libera dai luperinismi, ci aveva visto lungo.


1. FEDERIGO TOZZI, Cose e Persone. Inediti e altre prose, Glauco Tozzi (a cura di), Vallecchi, Firenze, 1981, p. 332.

2. Si tenga conto che all’interno di questo componimento viene negata la funzione corporea, fisica, digestiva della bocca (Ma la mia bocca è cieca; e non è fatta per mangiare), rimandando forse a una sua funzione all’interno di una dimensione vocale, primitiva, della in quanto canto.

3. RICCARDO CASTELLANA, Tozzi, Palumbo, Palermo, 2002, p. 31.

4. ROMANO LUPERINI, Federigo Tozzi, le immagini, le idee, le opere, Laterza, Bari, 1995, p.205

5. FEDERIGO TOZZI, Cose e Persone. Inediti e altre prose, Glauco Tozzi (a cura di), Vallecchi, Firenze, 1981, p. 332.

6. FEDERIGO TOZZI, Novelle Romane, a cura di Riccardo Castellana, Betti Editrice, Siena, 2019, p. 7.

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Studente di Lettere. Università di Siena. Organizza eventi culturali nel territorio senese.

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