Filosofia

Tra presenza e assenza: riflessioni e divagazioni nei dintorni di Kant

Fin dalla Prefazione alla seconda edizione della Critica della ragion pura, Immanuel Kant è esplicito nel dichiarare l’intento di delimitare e riordinare con questa sua opera il campo della filosofia speculativa, perché nella sua ricerca dei fondamenti universali e necessari della nostra esperienza essa proceda con la certezza di una scienza e non con quel “dommatismo” della metafisica di scuola che finisce inoltre per essere foriero di diverse e altrettanto infondate avventure del pensiero.1

Siamo negli anni del conclamato Illuminismo (1787) e in retrospettiva a noi sembra del tutto naturale che il filosofo di Königsberg abbia dato seguito al suo proposito svolgendo un’indagine sistematica e approfondita sulla prodigiosa macchina che ci consente di conoscere, prima e più che sugli oggetti della conoscenza: una volta assodate le modalità di funzionamento e il raggio d’azione della ragione (più specificamente, di ragione e intelletto), sarebbe stato inutile impegnarla su questioni esterne alla sfera di sua competenza.

Le conclusioni sono note: soltanto ciò che cade entro l’orizzonte dei nostri sensi, o è ad esso riconducibile, può essere oggetto della nostra conoscenza; applicandosi però alle cose il nostro intelletto per così dire le configura secondo criteri d’ordine (le categorie) che gli sono propri, così che non ipotetiche cose in sé (i noumeni) noi possiamo conoscere, ma solo le maschere loro (i fenomeni) e la danza cui la regia del nostro intelletto le costringe2; il cielo oltre cortina delle cause prime (anima, mondo, dio) è dunque a noi precluso, ed entro il recinto del fenomenico in cui siamo confinati sono le stesse categorie a garantire quelle caratteristiche di universalità e di necessità che noi riscontriamo nella natura e la cui origine tradizionalmente la metafisica ricercava in sostanze puramente intelligibili.

Ricorre quasi sempre alla terminologia dell’assenza Kant per rappresentare il vasto territorio delle cose che noi possiamo pensare ma non possiamo conoscere, così che concetti vuoti sono i noumeni e ragionare di essi è ragionare di niente; l’Autore della Critica sembra parlare di crepacci e di abissi da cui bisogna guardarsi con cura, eppure forse la stessa preoccupazione con cui egli insiste ad argomentare che il campo del fenomenico soggetto all’azione conoscitiva dell’intelletto non ammette vuoti è – da un punto di vista psicanalitico – il sintomo di quell’attrazione mista a paura che prende l’uomo di fronte ai misteri della vita e della natura e che facilmente sconfina nel sentimento religioso.

Comincia subito il filosofo la sua campagna more militari contro la nostra (falsa) percezione del vuoto e dell’assenza, quando nelle pagine dell’Estetica trascendentale chiarisce che lo spazio non è qualcosa che possa esistere senza fenomeni, e quindi vuoto: lo spazio è piuttosto “la condizione della possibilità dei fenomeni, […] una rappresentazione a priori, la quale è necessariamente a fondamento di fenomeni esterni”.3 Insomma lo spazio è la stanza virtuale che il nostro intelletto spalanca ogni volta per rendere percepibili i fenomeni, ma che senza fenomeni scompare come per incanto.

E come spiegare allora l’(apparente) assenza di evidenze tra un fenomeno e l’altro? Risponde Kant che intanto “non si può dall’esperienza ricavare mai una prova dello spazio vuoto o del tempo vuoto. Perché l’assenza totale del reale nell’intuizione sensibile, in primo luogo, non può in se stessa essere percepita4; e poi i fenomeni, oltre ad avere una estensione nello spazio, hanno anche per i nostri sensi un grado di evidenza che da un massimo va ad un minimo che si approssima infinitamente allo zero ma non lo raggiunge mai, come dire che lo spazio nei fenomeni e tra i fenomeni che a noi sembra vuoto è in realtà pieno di qualcosa che i nostri sensi non riescono a percepire5 : una premonizione della fisica delle particelle, si direbbe. La conclusione categorica è dunque che “nell’esperienza niente può entrare, che dimostri un vacuum”.6

Ma se il territorio della nostra esperienza possibile, il mondo fenomenico è un tutto pieno che sarà semmai compito del nostro intelletto illuminare laddove esso non si manifesti con sufficiente evidenza ai sensi, non viene spontaneo pensare che esso sia circondato tutto attorno dallo stesso, e forse più inquietante, vuoto da cui al suo interno è stato liberato? Meglio allora ipotizzare – osserva Kant – che il mondo sia infinito, perché un mondo finito non può che essere delimitato da qualcosa che sia incompatibile con lo stato di pieno fenomenico che lo caratterizza: in una parola, dal vuoto.7

Dato però che anche pensare il mondo come infinito significa riconoscere che la sua infinitezza è da sempre compiuta, ciò che è evidentemente “impossibile”, la questione se il mondo sia finito o infinito resta sospesa per così dire sull’orlo dell’abisso e diventa per Kant dominio della ragione- ragione, che altro scopo non ha se non di trascinare l’intelletto a rispondere a domande di ordine sempre più generale – a protendersi sempre più in là nel vuoto – facendogli balenare dinnanzi l’illusione che le soluzioni ai quesiti fondamentali esistano, quando in realtà i concetti ad essi corrispondenti di anima, dio e cosmo sono appunto concetti vuoti che mai potranno essere riempiti di adeguato significato.8

Insomma, al di fuori di quello che i nostri sensi e il nostro cervello riescono a sperimentare non c’è nulla, ma è grazie all’illusione che quel vuoto possa tramutarsi in pieno che il nostro intelletto contribuisce a pieno regime al progresso della conoscenza. E se poi qualcuno dovesse obiettare che il senso di vertigine sul ciglio dell’abisso resta intatto a domandarsi da dove venga all’uomo la macchina magica del suo cervello, Kant è costretto ad ammettere che questo “è il vero baratro della ragione umana”, visto che davanti a questo e agli altri infiniti perché che la ragione speculativa pone “tutto si sprofonda sotto di noi, e la massima come la minima percezione pende nel vuoto senza sostegno”.9

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A ben vedere la cifra specifica, e anche in questo caso tipicamente illuministica, della concezione che Kant dimostra del vuoto è la sua funzionalità al progresso della conoscenza umana. Quanto invece al sentimento misto di spaventosa vertigine di annichilimento e di stupore mistico dinnanzi all’abisso/ignoto che il vuoto suscita, la letteratura di tutti i tempi è stata prodiga di rappresentazioni senz’altro più efficaci dell’asciutta prosa argomentativa di Kant nel conferire all’argomento tutto il brivido che gli è proprio.

Esemplare a questo proposito è a mio avviso una novella di E. A. Poe, Una discesa nel Maelström (1841)10. Un marinaio, invecchiato e diventato bianco precocemente per l’orrore, racconta di essere stato malauguratamente risucchiato con la sua barca dentro il gigantesco gorgo chiamato Maelström, sul bordo del quale si spingeva a pescare lui solo nonostante il pericolo fosse noto a tutti.

Preda di una lucidità che egli stesso non sa spiegarsi, il pescatore riferisce con precisione straordinaria i pensieri e i sentimenti che lo hanno attraversato mentre la barca vorticava a giri sempre più stretti verso il fondo dell’abisso: parla di “sensazioni di terrore, orrore e ammirazione”, arriva a dire che “morire a quel modo […] di fronte a tanto mirabile manifestazione della potenza divina” gli era sembrata una magnifica cosa, racconta di essere stato preso dalla “più acuta curiosità riguardo al vortice stesso” e di aver avvertito “addirittura il desiderio di esplorarne le profondità”.

Nonostante però da uno squarcio circolare tra le nubi sopra di lui – in corrispondenza perfetta con l’imbuto nerissimo del vortice sotto di lui – splendesse una luna piena che “illuminava ogni cosa attorno […] con la massima nitidezza”, riferisce l’uomo di mare di non essere comunque riuscito “a distinguere nulla chiaramente a causa di una fitta nebbia che tutto avvolgeva e sulla quale si librava uno splendido arcobaleno, simile a quell’angusto ponte sospeso che, dicono i Musulmani, è il solo sentiero tra il Tempo e l’Eternità”.

Credo superflua la comparazione con l’uomo kantiano, sospeso anche lui come l’imbarcazione del marinaio sull’orlo di “un imbuto di […] profondità prodigiosa”, tra attrazione “dell’abisso senza fine” e luce splendente della luna piena; aggiungo solo che l’ordine strutturato della superficie – “barche, battelli, navi”, pini e abeti, finanche balene e un orso -, quando viene inghiottito dall’immenso gorgo, viene disgregato, frantumato e nuovamente espulso nella forma disarticolata dei “rottami scorticati”: da una parte il potere strutturante e distintivo delle categorie, dall’altra il naufragio della razionalità oltre le colonne d’Ercole del fenomenico.

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Sospesi sul vertiginoso ciglio del Maelström, Kant ci invita a rivolgere sguardo e pensiero solo alla superficie resa nitida e piena dalla luce brillante della luna. E se mai ad una fugace occhiata qualche spettro dovesse apparirci dal fondo dell’imbuto, esso in realtà non è che l’illusoria lepre che la ragione agita davanti alle fauci del nostro intelletto per farlo correre più velocemente e più lontano. A questo mondo non ci siamo che noi, la nostra mente e i fenomeni che il suo cono di luce riesce a illuminare.

L’incubo del vuoto sembrerebbe stornato; senonché obietta Quentin Meillassoux, allievo di Alain Badiou ed esponente del cosiddetto “Realismo speculativo”, che aver ritirato la ragione dentro la cittadella del sensibile e del fenomenico ha lasciato le misteriose terre dell’assenza preda delle frange più estreme e fanatiche di quella metafisica “dommatica” che si voleva neutralizzare. Un vuoto pensato, per quanto maldestramente, è meno pericoloso di un vuoto scevro di pensiero, insomma.

Ragiona Meillassoux11 che Kant ha trasferito di fatto gli attributi di necessità e di universalità propri della metafisica dell’Altrove alla scatola magica della nostra mente. Ora, questa sottomette tutti i suoi contenuti, sia ciò che è conoscibile (fenomeni e loro implicazioni), sia ciò che è solo pensabile (i noumeni e le Cause Prime), al principio razionale di non contraddizione12; l’ovvia conseguenza è che anche quando io affermo qualcosa di una Cosa in sé o di un Ente supremo, ipotetici abitatori degli spazi vuoti dell’inconoscibile, non posso comunque entrare in contraddizione: dato che il concetto di dio implica la bontà somma, non posso dire per esempio che dio è malvagio, fosse anche contro i malvagi.

Oggi però noi assisteremmo secondo Meillassoux ad una estremizzazione del criticismo kantiano, per cui neppure le regole della ragione possono essere assolute, dato che è la ragione stessa dell’uomo a considerarle tali: è quello che il filosofo francese chiama “correlazionismo”, la corrente filosofica, ma ora anche diffusamente culturale, che lega qualsiasi ricerca dell’assoluto al punto di vista sempre relativo dell’uomo, e quindi de-assolutizza tutto, persino la ragione kantiana e la sua prerogativa di pensare secondo il principio di non contraddizione anche le entità presenti/assenti del vuoto oltre i fenomeni – del cavo imbuto senza fine del Maelström.

“Il punto di arrivo di questo percorso è la scomparsa della pretesa di poter pensare gli assoluti, ma non la sparizione degli assoluti” (ossia delle misteriose entità che abitano il vuoto, aggiungo io) – osserva Meillassoux, e conclude: “I filosofi sembrano esigere solo una cosa da questi assoluti, vale a dire che in essi non permanga alcun aspetto il quale si rivendichi come razionale”.13

L’effetto di per sé evidente, e che non riguarda solo la ristretta cerchia dei filosofi, è la diffusione del fideismo (da cui ovviamente la ragione è esclusa) e finanche del fanatismo, perché “se niente di assoluto è pensabile, non si vede perché le peggiori violenze non potrebbero venire giustificate in nome di una trascendenza accessibile solo a pochi eletti”.14

Con Kant e con il primato da lui assegnato alla ragione sembrava di aver vinto l’eterna partita con il vuoto e con i vuoti che incantano e terrorizzano le nostre esistenze, ma ecco che nuove e più inquietanti voragini si aprono sotto i nostri piedi.

E se il vuoto dopotutto avesse le sue ragioni? Se fosse stato sulla strada giusta Kant quando, oltre a bandire il vuoto dal fenomenico, lo ha reso necessario (al progresso della conoscenza, secondo lui)?

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Pensare a un vuoto necessario, addirittura utile e produttivo è per me tutt’uno che pensare a Slavoj Žižek e – per tramite suo – a Jacques Lacan.

Il filosofo sloveno, lacaniano di ferro, dichiara ne La visione di parallasse15 di voler rifondare il materialismo dialettico e disegna pertanto uno scenario tutto immanente in cui il vuoto – lo spazio dell’Altrove e degli assoluti – sembra apparentemente non trovare posto.

Egli in realtà fa sua la prospettiva psicanalitica di Lacan, per cui il nostro mondo materiale – l’unico possibile – ha una sua ordinata struttura originaria in cui come in una scacchiera ciascuno è, in quanto va ad occupare giocoforza una delle caselle disponibili: è la posizione nella scacchiera a conferire un’identità, la quale quindi non esiste come sostanza, prima del tempo e dello spazio.

Di fatto è proprio questa sorta di costrizione originaria a essere solo ciò che la struttura prevede, che genera nel soggetto il senso di una mancanza, di una deprivazione imposta (la “mancanza a essere” di Lacan)16; da qui germinerebbero l’alienazione e la percezione di uno spazio vuoto, estraneo al pieno della scacchiera, in cui il supposto vero sé si aggirerebbe sempre insoddisfatto perché sempre ugualmente costretto, nel caso, a manifestarsi in uno dei riquadri dati.

A parte l’ovvia considerazione che qui il vuoto è una dimensione tutta psicologica – nulla ha più a che fare con l’Altrove dei noumeni e della metafisica – di particolare interesse appare la traduzione socio-politica che Žižek sviluppa da questi presupposti.

Qualsiasi ordine politico – qualsiasi assetto dei pezzi sulla scacchiera, anche quello democratico decantato come il migliore possibile – pullula alla sua base di risentimento individuale e di pulsioni negative che, convertite in corrispondenti valori positivi da un intervento “superegoico”, a loro volta puntellano l’intero edificio: il desiderio di una parte, anche sparuta, di amministrare o condizionare tutto il potere è la faccia “oscena” della regola democratica del potere condiviso.17 Rientrano in questa doppia faccia indissolubilmente implicata (il concetto di parallasse) anche le missioni umanitarie a favore dei diseredati in un sistema che le promuove grazie allo sfruttamento dei diseredati, o la militanza ecologista resa possibile dallo stesso benessere economico che la devastazione industriale del pianeta riesce a generare.18

E neppure è da pensare – sostiene Žižek – che la soluzione adeguata a questa natura doppia e nascostamente corrotta di un potere possa consistere nella sua sostituzione con un potere altro che si presume migliore, secondo la tradizionale dialettica materialista mutuata da Hegel (dal capitalismo alla dittatura del proletariato, per intendersi); come è stato detto poco sopra, infatti, “il modo in cui un dato campo socio-politico è esplicitamente strutturato (scil. la “scacchiera”), la lotta aperta che definisce la sua dinamica, non è mai un “vero” antagonismo di fondo”.19

La via d’uscita, la vera rivoluzione a giudizio di Žižek – ed è qui che ritorna pienamente valorizzato quel vuoto di cui noi avremmo una percezione solo derivata, come spazio del sé autentico che l’imposizione originaria della “scacchiera” avrebbe violato – consiste in un nuovo materialismo dialettico, in cui le due parti in conflitto sono la stessa struttura simbolica originaria da una parte, e il vuoto “del suo posto” dall’altra: bisogna passare “da qualcosa al nulla, dallo scarto tra due ‘qualcosa’ allo scarto che separa qualcosa dal nulla, dal vuoto del suo posto”.20

Sembra un colpo di teatro, un tipico sofisma da filosofo, eppure a ben vedere il ragionamento e il suo punto d’arrivo indicano una strada concreta e, soprattutto, praticabile. Essere consapevoli sempre del pieno della costrizione originaria – il mondo strutturato in cui viviamo, il solo possibile – e del vuoto su cui esso è campato non significa disimpegno, ma attitudine critica continua e lotta permanente contro ogni pretesa di assoluto ideologico, contro ogni cristallizzazione del potere, contro qualsiasi tentazione a idealizzare una causa, un uomo, un partito, il passato, perché lo statuto vero della nostra esistenza è parallattico, è intimamente duale, e qualsiasi cosa si agiti sul palcoscenico del nostro mondo nasconde sempre dietro le quinte il suo lato “osceno”.

Senza il vuoto l’edificio dialettico di Žižek non starebbe in piedi, come si vede. Ma neanche sarebbe possibile il progresso della conoscenza, secondo Kant, né l’inquietante bellezza – forse bella proprio perché inquietante – dell’arte di Poe, e neppure l’invito a percorrere le zone oscure del nulla, torcia alla mano, di Meillassoux.

Viviamo in tempi che corrono sotto l’insegna del pieno, riempiamo il globo di asfalto e di cemento, gettiamo ponti sugli abissi, aspiriamo a colonizzare lo spazio, chiudiamo il nostro passato e anche il nostro futuro entro i contenitori stagni del già pensato e della ideologia, ma è del vuoto che non possiamo fare a meno: i pieni vanno svuotati, i contenuti già pensati vanno estratti dai loro chiusi contenitori e ripensati ancora e ancora, sempre, il futuro è un viaggio sul ciglio mozzafiato del Maelström che è bene affrontare con il faro della ragione spianato e con la riluttanza critica di Bartleby, il vero rivoluzionario secondo Žižek.21


1. I. KANT, Critica della ragion pura, a c. di Vittorio Mathieu, Bari, Economica Laterza, 2005, pp. 25-26: “[…] io ho avuto cura di alcune pretese più legittime del filosofo speculativo. Egli rimane sempre il depositario esclusivo di una scienza […]; voglio dire della critica della ragione. […] mediante l’esame profondo dei diritti della ragione speculativa […] possono essere tagliati alla radice il materialismo, il fatalismo, l’ateismo, l’incredulità dei liberi pensatori, il fanatismo, la superstizione, che possono divenire perniciosi a tutti, e infine anche l’idealismo e lo scetticismo […]”.

2. Ivi, p. 205: “[…] l’intelletto a priori (scil. le categorie) non può mai far altro che anticipare la forma di un’esperienza possibile in generale: e poiché ciò che non è fenomeno non può essere oggetto dell’esperienza, l’intelletto non può mai oltrepassare i limiti della sensibilità, dentro i quali soltanto ci sono dati gli oggetti”.

3. I. KANT, op. cit., p. 56

4 Ivi, p. 156

5. Ibidem: “[…] poiché ogni realtà ha il suo grado che, rimanendo costante la quantità estensiva del fenomeno, può scemare fino al niente (vuoto) per gradi infiniti, è necessario che ci siano infiniti gradi diversi di cui sia pieno lo spazio e il tempo;”.

6. I. KANT, op. cit., pp. 192-193

7. Si veda (pp. 290-295) il conflitto di argomentazioni e confutazioni incrociate relative alla prima antinomia della ragion pura, se il mondo cioè sia finito o infinito.

8. I. KANT, op. cit., pp. 338-339: la ragione, qui nella sua accezione specifica contrapposta all’intelletto, “esige questa completezza incondizionata (scil. che non richiede alcuna condizione a monte per esistere, e quindi assoluta) di ciò che essa presuppone come cose in sé; e poiché, invece, il mondo sensibile non contiene cose in sé […]. Non c’è dunque altro valore del principio della ragione, se non come d’una regola del proseguimento e della grandezza d’una esperienza possibile”, cioè di spingere l’intelletto a estendere quanto più possibile la sua conoscenza nel mondo sensibile.

9. I. KANT, op. cit., p. 392

10. E. A. POE, Racconti straordinari, (a c. di M. C. Grandi), Milano, Principato, 1993. Tutte le citazioni a seguire sono tratte da questo volume (pp. 97-110).

11. Q. MEILLASSOUX, Dopo la finitudine (a c. di M. Sandri), Milano-Udine, Mimesis Edizioni, 2012

12. Ivi, p. 50: “La critica (scil. di Kant) bandisce ogni conoscenza della cosa in sé (ogni applicazione delle categorie al sovrasensibile), ma mantiene la pensabilità dell’in sé. Secondo Kant, quindi, noi sappiamo a priori che la cosa in sé è non contraddittoria […]”.

13. Ivi, p. 61

14. Q. MEILLASSOUX, op. cit., p. 64

15. S. ŽIŽEK, La visione di parallasse, Genova, il melangolo, 2013. Per una sintesi rinvio al mio contributo su Nazione Indiana, al seguente link: https://www.nazioneindiana.com/2018/04/08/la-parallasse-zizek/

16. A. DI CIACCIA – M. RECALCATI, Jacques Lacan, Milano, Bruno Mondadori, 2000, p. 62: “Il soggetto in quanto umano è sottomesso da sempre […] all’ordine del linguaggio. La mancanza del soggetto – la famosa manque à être – sorge come effetto di questa soggezione”. Al “linguaggio” corrisponde metaforicamente nel mio testo la scacchiera.

17. S. ŽIŽEK, op. cit., p. 554: “[…], tale rivendicazione di un’intuizione privilegiata, sprezzante delle regole democratiche del gioco, è possibile solo all’interno dello spazio democratico – è il contenuto che integra necessariamente la forma democratica […]”.

18. Ivi, pp. 560 e 562, passim

19. Ivi, pp. 510-511. Per esempio, la lotta per il salario fa sostanzialmente del proletario il consumatore necessario ad alimentare la macchina del capitalismo. Cfr. p. 83

20. Ivi, p. 561

21. S. ŽIŽEK, op. cit., p. 559-560: “E questo ci riporta al Bartleby di Melville. Il suo ‘preferirei di no’ va preso alla lettera: dice ‘preferirei di no’, non ‘non vorrei (o non m’importa)’ […]. Nel suo rifiuto dell’ordine del Padrone, Bartleby […] non dice che non vuole farlo; dice che preferisce (vuole) non farlo. E così si passa dalla politica della “resistenza” o della “protesta”, che si parassita su ciò che nega, ad una politica che apre un nuovo spazio al di fuori della posizione egemonica e della sua negazione”.

Davide Gatto

Docente di Lettere a Francavilla Fontana e scrittore.

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