Storia

I CREDENTI E NON NEL “MIRACOLO ECONOMICO”. LA TV TRA SOCIETÁ DEI CONSUMI E DEI CONSUMATORI

La storiografia italiana si riferisce al periodo tra 1958 ed il 1963 come “miracolo economico”. Al di là dell’enfasi sensazionalistica, è sufficiente ricordare che questi anni rappresentano, in realtà, solo il cuore del miracolo. Infatti, l’Italia che cresceva in termini di PIL già dal dopoguerra, ha cominciato a farlo ancora di più nel quinquennio: 6,3% di crescita media contro il 4,3 dell’Europa occidentale. Mi concentrerò su questo periodo, consapevole che sarà necessario travalicare quei limiti temporali per ovvie ragioni. Recentemente, gli studiosi sono concentrati su un filone della storiografia il cui oggetto di osservazione è il pubblico, forse meglio dire i pubblici che partecipano ed elaborano i messaggi e che un tempo erano considerati soggetti passivi della trasmissione. Mi riferisco alla storia sociale della televisione nata sulla scia della «svolta etnografica»1, metodologia di studio che pone l’attenzione sulle identità coinvolte nella negoziazione dei messaggi mediatici e sul contesto. L’obiettivo degli studiosi, quindi, è stato quello di storicizzare le trasformazioni del pubblico riunitosi attorno alla televisione, provando a comprendere i punti nodali attorno a cui si costruì la società del benessere.

Un lavoro che prova a sintetizzare un approccio qualitativo e l’analisi dei dati quantitativi è quello dello storico Damiano Garofalo che nel suo “Storia sociale della televisione in Italia (1954- 1969)” compie un’operazione di «archeologia televisiva»2, le cui fonti sono da una parte i diari e le memorie raccolte nell’Archivio diaristico nazionale di Piave di Santo Stefano e dall’altra i dati organizzati ed elaborati dal Servizio Opinioni della RAI a fini statistici sull’andamento del pubblico radiotelevisivo.

A proposito di andamento, la prima trasmissione RAI risale al gennaio 1953 e dopo appena due anni il Servizio Opinioni produce un’indagine. Fin da subito emerge un fenomeno che, vedremo, sarà un riflesso delle fibrillazioni in corso, cioè quello della mobilità: «(…) tra i 6 e i 7 milioni di italiani guardavano la televisione fuori casa» su un totale di 20 e, proseguendo, «(…) la maggioranza degli italiani guardava la televisione soprattutto nei locali pubblici – poco più del 50% – o a casa di amici e parenti – circa il 20%»3 mentre il resto a casa propria. È interessante sottolineare come l’avvento della televisione si vada ad inserire in un quadro che vedeva cambiare rapidamente i modi di produzione, ma anche gli stili di vita degli italiani, quella che Pasolini definì “mutazione antropologica”4.

Partendo da tale prospettiva gli studiosi “accendono le luci” su un pubblico, rappresentativo in parte della società tutta, che vive le paure ed i sogni di una trasformazione profonda in cui l’Italia avrebbe compiuto, secondo lo storico Antonio Cardini, il passo da «(…) paese rurale a paese industriale» e prodotto una«(…) svolta millenaria, perché pone fine all’Italia rurale, all’antica Italia rurale»5. Il Paese viveva, quindi, una frenesia fisica di corpi e macchine ed una culturale di idee e stili di vita entrambe mediate dalla televisione. Suggerisce su questo punto Giovanni Gozzini che tra il 1955 ed il 1971 ben 26 milioni di italiani cambiarono residenza in un fenomeno di migrazione interna6 e tanti altri fecero la valigia trasferendosi all’estero e soprattutto al Nord.

In un clima eccitante e ottimistico, penso che la televisione sia entrata nella casa degli Italiani con autorità e che, forse, con gli anni abbia saputo acquistare autorevolezza. Intendo dire che la televisione è comparsa stabile, sempre uguale a sé stessa e con messaggi identici nel tempo e nei luoghi (solo però nel 1957 le trasmissioni televisivi vennero estese a Puglia, Calabria e le due isole) in una realtà politica e sociale instabile (a fine anni Cinquanta iniziarono i dialoghi tra socialisti e democristiani), percorsa da grandi spostamenti di popolazione e disorientamento culturale. Nasceva, quindi, una società di consumi e per molto tempo il pubblico fu considerato solo una “massa di poppanti frustrati”7. È evidente, tuttavia, che la televisione abbia giocato anche un ruolo di socializzazione soprattutto come moltiplicatore di esperienze e conoscenze condivise.

Pertanto, adesso si indagherà quel dialogo venutosi a creare tra televisione e pubblico, espressione di un rapporto complesso, ricco di tensioni che solo talvolta venivano rappresentante, più spesso, invece, solo ascoltate. Emerge, cioè, una metafora della televisione non solo come “finestra sul mondo”, ma anche “termometro” di una società formicolante oppure “terza finestra” su una realtà falsa, quella degli studi televisivi. Altre volte, invece, una televisione percepita come “scatola magica” posta in alto sugli scaffali o “focolare elettronico” attorno a cui riunirsi.

Innanzitutto, bisogna specificare le modalità del dialogo e quindi quali erano i programmi più popolari prodotti agli esordi della televisione. Tra questi annotiamo fra tutti il Carosello, Lascia o raddoppia? e Canzonissima oltre che i telegiornali; programmi che riunivano tutti davanti allo schermo e svuotavano le strade. Secondo Garofalo la televisione del miracolo economico era in grado di «utilizzare livelli comunicativi differenti» e di riflesso contenuti appropriati così che «gli appartenenti alle classi sociali meno abbienti o meno istruite non si sentivano, per la prima volta, tagliati fuori da un discorso culturale di valenza nazionale»8. Un discorso di cui la comunità dei telespettatori si sente in un certo qual modo responsabile e le numerose testimonianze raccolte da Giovanni Gozzini ne “La mutazione individualista” degli abbonati che scrivevano al settimanale della Rai, il “Radiocorriere Tv”, lo dimostrano, esprimendo preoccupazioni, dubbi, critiche e apprezzamenti a cui spesso i direttori rispondevano a tono. Nel 1978, ad esempio, ma ce ne sono molte, dopo la rimozione di Carosello, un telespettatore protesta e scrive significativamente:

«Perché non chiedete al pubblico cosa ne pensa? Che male ci sarebbe a riconoscere uno sbaglio? (…)»9.

Si esprime, pertanto, una consapevolezza dettata dal sentirsi parte di una comunità, quella dei consumatori, dei fruitori di un prodotto che vorrebbero partecipare maggiormente alle decisioni prese ai vertici. Comunque, rimane una televisione del “miracolo economico”; infatti è il benessere, il consumo e la spensieratezza che si enfatizzano a discapito delle fatiche e dei drammi che molti continuano a vivere, interiorizzando in prima persona uno iato presente nella società lanciata verso lo sviluppo industriale. Come ha osservato Paul Ginsborg: «nelle baraccopoli di Palermo o di Napoli, nelle borgate romane o negli squallidi sobborghi di Milano e Torino, migliaia di famiglie continuavano a vivere in condizioni spaventose. (…) Per loro il “miracolo economico” poteva aver significato l’acquisto di un apparecchio televisivo, ma per il resto ben poco altro»10. La realtà a cui si riferisce l’autore è quella delle aree depresse delle grandi città che soffrono l’incapacità di realizzare un progresso pienamente inclusivo, ma è anche quella del Meridione che solo a partire dagli anni Sessanta conoscerà un modello di industrializzazione forte e la conseguente urbanizzazione che porterà alla trasformazione del tessuto sociale. È utile a tal proposito citare Umberto Eco che nel 1963 osserva l’avvento di uno medium che «(…) presenta violentemente nuove forme di vita, realtà sociali diverse, fenomeni spesso incomprensibili ma carichi di prestigio (…) tutto questo non può non risolversi in un movimento qualsiasi; e movimento, curiosità, risveglio sono fasi pedagogicamente positive per gruppi umani assopiti in rassegnazioni secolari e insanabili»11. Probabilmente i dirigenti della televisione erano pienamente consapevoli del ruolo che il medium avrebbe ricoperto nell’introduzione alla modernità per fasce popolari che non possedevano – almeno all’inizio – strumenti intellettuali per codificare e interpretare i dati trasmessi e, pertanto, scrive Menduni: «la televisione dunque fornisce i modelli sociali del consumo; letteralmente: insegna a consumare. Fa conoscere le marche, i prodotti, spiega come usarli (…) e perché sono importanti. (…). Un modello pedagogico indubbiamente c’è, ma esso si incarica anche di educare alla modernità»12.

Ho provato a concentrare l’attenzione sul rapporto tra televisione, “miracolo economico” e società, cercando di sottolineare l’impostazione “sociale” che la storiografia recente cerca di proporre attraverso la lettura qualitativa delle fonti di un’epoca tratteggiata grazie al concorso di dati quantitativi prettamente economici e statistici. Ho, quindi, potuto rilevare come alcune caratteristiche del consumo degli ultimi anni Cinquanta (la proposta di stili di vita differenti, l’esperienza condivisa della visione, la fruizione collettiva e non) siano rintracciabili con le dovute precisazioni nelle nostre scelte quotidiane e che uno sguardo “dal basso” come quello proposto da Garofalo possa illuminare le domande sulla nostra società e, forse, criticare più compiutamente la posizione di consumatori che vorrebbero diventare coscienti e consapevoli “consumat(t)ori”, in fondo come scrive Menduni: «la televisione non è certo neutrale, ma non è neppure onnipotente.»13


1. S.Moores, Interpreting Audiences.The Ethnography of Media Consumption, Sage, London, 1993, trad. it. Il consumo dei media. Un approccio etnografico, Il Mulino, Bologna, 1998.

2. D. Garofalo, Storia sociale della televisione in Italia (1954-1969), Marsilio, Venezia, 2018. Vedi le conclusioni.

3. D. Garofalo, 2018, cit., p.29.

4. P. Pasolini intende una mutazione non biologica, ma culturale per cui i valori e le mentalità dei vari mondi italiani sono stati sostituiti dal potere consumista che vuole promuovere una società dei consumi in cui l’omologazione annulla le differenze. Ne parla negli ultimi anni della sua vita (1974-1975) in testi ora raccolti in Lettere luterane e Scritti corsari.

5. A. Cardini, Introduzione. La fine dell’Italia rurale e il miracolo economico in Il miracolo economico italiano (1958- 1963) a cura di A. Cardini, Il Mulino, Bologna, 2006, p.

6. Cfr. Giovanni Gozzini, La mutazione individualista. Gli italiani e la televisione 1954-2011, Il Mulino, Bologna, 2011, p.8.

7. M. Cucco, La diabolica arte di far spende il denaro, in «Oggi», 3 luglio 1958, p.49.

8. D. Garofalo, 2018, cit., p.83.

9. G. Gozzini, 2011, cit. p.20.

10. P. Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi. Società e politica 1943-1988. Vol. II, Dal “miracolo economico” agli anni ’80, Torino, Einaudi, 1989.

11. U. Eco, Apocalittici e integrati, Milano, Bompiani, 1964, p.313.

12. E. Menduni, La nascita della televisione italiana in Il miracolo economico (1958-1963) a cura di Antonio Cardini, Bologna, Il Mulino, p.133.

13. E. Menduni, La televisione, Bologna, Il Mulino, p.89.

Francesco Caiazzo

Studente di Storia, Università di Bologna, Pugliese.

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