Politica,  Storia

I CATTIVI NELLA POLITICA DI “MANI PULITE”

In ogni momento storico le vite degli uomini sono state etichettate secondo una rappresentazione della realtà in cui vi sono i buoni e i cattivi. I primi sono coloro che sbagliano, si comportano malamente e che vanno ricondotti nella diritta via, quella della giustizia. I secondi sono i buoni, cioè quelli che compiono le scelte giuste e conducono la loro vita in modo moralmente ineccepibile.

La rappresentazione della realtà, i criteri con cui è descritta e le regole necessarie a dividere il campo in due sono stabiliti solitamente da chi si assume il compito di raccontare i fatti. Oltre ad un aspetto mediatico, che narra le vicende giorno per giorno, vi è un aspetto istituzionale e più precisamente giudiziario. In effetti, se un cattivo ha sbagliato, cioè ha commesso un’illegalità, occorre che un sistema giudiziario applichi la legge e ristabilisca la giustizia.

Tuttavia in Italia, vi è stato un periodo in cui la giustizia è stata percepita non solo come uno strumento correttivo delle illegalità, ma come uno strumento vendicativo di una parte del Paese contro un’altra. Il periodo a cui mi riferisco è quello di inizio anni Novanta quando la procura di Milano diede inizio alle indagini che assunsero il nome di “Mani pulite” e che decretarono secondo molti studiosi la “fine” della Prima Repubblica.

Quell'alleanza tra pm e giornalisti | Il Bo Live UniPD

Tutto ebbe inizio il 17 febbraio 1992 alle ore 17,30 circa, quando l’imprenditore Magni permetteva l’arresto in flagranza di reato di Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio di Milano. All’inizio della vicenda, nessuno immaginava che ad essere giudicato non sarebbe stato solo un uomo, membro del PSI e di cui si vociferava la prossima candidatura a sindaco, ma un intero sistema politico accompagnato dalla sua classe dirigente.

Proveremo ad esaminare la rappresentazione della classe politica che fu costruita contemporaneamente allo svolgersi dei vari processi. Per mesi, infatti, davanti alla scalinata e addirittura fin dentro i corridoi del palazzo della Procura di Milano, giornalisti e tv raccontarono in diretta le voci, i dubbi e le smentite che accompagnavano gli indagati invitati a testimoniare da quello che fu definito il “pool di Mani Pulite”. Ciò non poté che favorire la fuga di notizie che a volte causò il panico e in qualche caso suicidi.

Luglio 1993, Antonio Di Pietro, Gherardo Colombo e Francesco Saverio Borrelli, componenti del Pool Mani Pulite.

Per farlo, utilizzeremo le parole che i politici hanno scelto per difendersi dalle accuse dei magistrati o dei loro colleghi e per attaccare nelle loro dichiarazioni i cronisti che dalle pagine dei giornali pubblicavano analisi a volte poco equilibrate e infarcite di sensazionalismo. È un dato che quelli furono anni fruttuosi per gli editori che videro moltiplicare le copie dei quotidiani.

Quindi, chi erano i cattivi? Quali caratteristiche, si presumeva, possedessero?

 In origine fu lo stesso Antonio Di Pietro, magistrato con un trascorso in polizia, a commentare vivacemente l’arresto del presidente Chiesa che, appunto, era stato preso «con le mani nella marmellata». Poco dopo, Claudio Martelli, numero due del PSI, lo etichetterà come «ladro» mentre il figlio di Craxi, Bobo, avrebbe detto che «Mario Chiesa è un mascalzone. Idiota, poi, a farsi prendere con le mani nel sacco». Qualche mese dopo la rappresentazione si andava consolidando, soprattutto grazie al partito socialista che cercò di rappresentare Chiesa come la “pecora nera” oppure la “mela marcia”; così furono maturi i tempi affinché il cronista di Repubblica coniasse il termine «Tangentopoli».

Le altre testate nazionali non furono meno pungenti. Il Corriere della Sera, attraverso la penna di Giulio Anselmi, continuò sullo stesso filone: «la torta è finita». Ernesto Galli della Loggia, editorialista prima della Stampa e poi del Corriere, definì i partiti «combriccole di malandrini», concludendo che «tutti hanno rubato». D’altra parte, in chiaroscuro, si produce una rappresentazione positiva degli eroi. Vittorio Feltri, dalle pagine de L’Indipendente, di cui era direttore, scrisse: «Che Dio salvi Di Pietro». Craxi, invece, fu definito il «cinghialone» a cui la Magistratura dava la caccia.

Ad un certo punto tale era il livello di scontro tra Magistratura e sistema politico-dirigenziale che il Parlamento cercò di intervenire con atti legislativi finalizzati a depotenziare l’azione giudiziaria. I titoli erano pronti: «furto a Di Pietro». La rappresentazione cominciò ad indirizzarsi verso una lotta all’interno dello Stato tra magistrati e classe politica, percepito come un corpo intero pronto ad annullare le differenze ideologiche per compattarsi ed evitare il carcere.

Proviamo ora ad individuare le caratteristiche che erano attribuite ai “cattivi” nella politica rappresentata durante gli anni di «Tangentopoli»:

  • furbizia;
  • ingordigia (di denaro e potere);
  • connivenza;
  • dissimulazione;
  • arroganza.

Ciò che si può notare è che la rappresentazione dei “cattivi” politici come divoratori di risorse pubbliche e interessati unicamente al loro tornaconto personale abbia trovato un terreno fertile preparato dagli stessi politici. Infatti, furono proprio i segretari e i membri dei partiti coinvolti a cercare di ridimensionare la portata dell’evento, cercando di costruire una contro-rappresentazione in cui i personaggi indagati, ancora prima di essere giudicati colpevoli, venivano individuati come “mosche bianche” che operavano singolarmente, accusandoli di minare la reputazione dei partiti tradizionali. Le indagini, d’altro canto, cominciarono a mettere in luce la sistematicità con cui il rapporto tra imprenditoria e sistema politico si organizzava nel raccogliere e distribuire le tangenti.

I giornalisti, invece, contribuirono a creare una rappresentazione del Paese divisa in spazi precisi, confini morali difficili da oltrepassare. Infatti, se da una parte vi erano i “cattivi” politici di cui abbiamo detto sopra, dall’altra parte si collocavano i “buoni”, quindi la Magistratura e la Società civile, vittima, secondo questa rappresentazione, dell’arroganza dei partiti.

In conclusione, proviamo a tornare sulla Repubblica parlamentare italiana e sulla sua conclamata fine. Da quel momento la società civile fu narrata in una contro-rappresentazione positiva come spazio fertile in cui le migliori energie del Paese avrebbero potuto esprimersi, lontane dalla corruzione e dal clientelismo dei partiti. Così si irrobustì un protagonismo civico che chiedeva giustizia. Non fu allo stesso tempo, però, elaborata un’analisi critica della vicenda che mettesse in discussione la cultura democratica del Paese. Solo così, poté consolidarsi la lettura secondo cui la Prima Repubblica sia stata spazzata via in pochi anni con tutti i suoi metodi corruttivi e si sia fatta strada una Seconda Repubblica con radici forti e soprattutto oneste.

Francesco Caiazzo

Studente di Storia, Università di Bologna, Pugliese.

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