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Mutualismo e società di quartiere: un esempio barese

0. NOTA INTRODUTTIVA: È la prima volta che scrivo un articolo che riguarda un’esperienza che ho vissuto in prima persona. Avevo e ho tuttora qualche remora: temo di non essere a mio agio con la forma, temo di non sapermi destreggiare tra una prospettiva schiacciata e un discorso di ampio respiro, temo possa apparire presuntuoso e fanfarone raccontare la propria esperienza di mutualismo e solidarietà, temo che l’articolo possa soffrire di recentismo. Soprattutto, temo che non sia accattivante: in fin dei conti non sono né Zerocalcare né David Foster Wallace e il confine tra la saggistica in stile gonzo e il tema di terza liceo può essere labile a volte. Tuttavia, l’argomento di questa fanzine è La città, e la mia esperienza con la Rete di Mutuo Aiuto Vittorio Cosentino è stata la maniera più entusiasmante con cui mi sia mai rapportato a Bari, perciò la scelta è stata obbligatoria.

1. CENNI SUL RIONE LIBERTÀ. Clizia è un’associazione tarantina e quindi mi pare opportuno iniziare l’articolo con qualche cenno sul Rione Libertà di Bari. Non posso ritenermi un esperto conoscitore del quartiere perché ho iniziato a frequentarlo spesso solo la scorsa estate: non aveva molto da offrirmi e ci capitavo di rado, quasi solo di passaggio. Il Rione confina con il centro e con il lungomare, ha strade strette e edifici di inizio Novecento; è uno dei quartieri più popolati di Bari e credo di poter affermare con sicurezza che sia il più multietnico. Per un paio d’anni la mia maggiore fonte di conoscenza sul Rione Libertà è stata un brano rap un po’ stereotipato dei Bari Jungle Brothers con versi come “guardo la mia strada e so perché sto qui / e all’angolo di casa sento la police” e “dove vedete il marcio vedo il buono” che avevano tuttavia impressionato favorevolmente il mio immaginario. Penso sia significativo appuntare che il mio primo contatto con il quartiere sia avvenuto in uno spazio a lungo trascurato ma poi riqualificato grazie al lavoro di volontari e volontarie: il Cinema ExpostModerno. Il cinema sorgeva in mezzo a palazzi trasandati con verande fantasiose, in vie trascurate dalle iniziative culturali e con una socialità autoreferenziale. Fu una delle prime occasioni in cui compresi concretamente che la vitalità di una città non si giudica in base a quanto sia vivace il centro e che rendere il centro una vetrina può essere tanto encomiabile quanto escludente.

2. VIA GARRUBA. In autunno sono venuto a conoscenza di un gruppo che ogni sabato al Rione Libertà distribuiva pacchi alimentari alle famiglie e alle persone in difficoltà economica, la Rete di Mutuo Aiuto Vittorio Cosentino. Vittorio Cosentino è un nome famoso a Bari: un attore che ha calcato i palchi di mezza Europa per poi decidere di dedicarsi al teatro di strada morto durante il primo lockdown.

Raccolta dei pacchi alimentari da parte della Società di Mutuo Aiuto Vittorio Cosentino, Bari.


I motivi per cui avevo deciso di aderire non sono nitidi, fondamentalmente mi sembrava una buona causa per cui spendermi e vivevo con costrizione il dibattito politico nazionale sulle riaperture e sui sussidi. Forse in una fase di appiattimento della proposta politica rilanciare la propria identità può essere una maniera sana per continuare a interessarsene. La questione identitaria è rilevante per la Rete di Mutuo Aiuto: la sede, in uno sportello sindacale dei Cobas, ha le pareti costellate da bandiere No-Tap, dei curdi dell’YPG, di Maduro. C’è anche una saletta per visite mediche e consulenze psicologiche, attività di cui si occupa lo Sportello Sociosanitario Autogestito. La prima cosa che ho appreso è che «non siamo la chiesa», una distinzione che avrei compreso solo dopo qualche settimana: essere “la Caritas di sinistra”, per quanto lodevole, significa agire solo in maniera superficiale, mentre l’obiettivo della Rete è l’emancipazione delle classi popolari. Le definizioni di emancipazione e di classi popolari diventeranno più chiare col passare del tempo. Uno dei mezzi dell’emancipazione era comunque quello di far entrare nelle schiere dei volontari anche le persone che venivano aiutate: questo era un presupposto fondamentale, perché il mutualismo è una pratica dal basso mentre l’assistenzialismo è calato dall’alto. Nel gruppo quindi c’erano anche una signora di circa sessant’anni e una ragazza sulla trentina. Per il resto, la composizione del collettivo non era ancora molto variegata: tutta gente sotto i quarant’anni che o studiava o aveva studiato. La prima cosa che ho ammirato di F. è che sapesse parlare bene in dialetto, skill che reputo essenziale non tanto per comunicare con il pubblico quanto per entrarci in confidenza.
Le mansioni sono queste: rispondere al centralino il lunedì pomeriggio per segnare i nomi delle famiglie che chiedono il pacco alimentare, andare al mercato generale il venerdì e il sabato mattina per raccogliere la frutta e la verdura invenduta, buttare tutto ciò che è marcio, comprare il secco con i soldi delle donazioni, fare il giro dei mercati rionali per ritirare altra frutta e verdura, sistemare le spese nelle cassette, distribuirle, comunicare sui social quello che facciamo per attirare donazioni e  fare egemonia culturale. Venerdì sera o sabato dopo la distribuzione: assemblea. Menziono a parte i compiti organizzativi come la gestione della contabilità e la conta dei volontari disponibili: per mesi avevo ritenuto queste due attività non faticose e considerato naturale che ogni settimana A. si prendesse la briga di rincorrerci e domandarci se potessimo o meno venire, mentre invece ora reputo molto più efficace che ognuno si proponga da sé.

3. RESPONSABILITÀ COMUNI. Intessere relazioni con i lavoratori del mercato significa diventare mediatori tra i venditori e i consumatori e scardina i loro tradizionali rapporti: il cibo non è più merce, non c’è concorrenza perché non ci sono più prezzi, non c’è più neanche alcun profitto. Frequentare i mercati inoltre ha stimolato una maggiore consapevolezza dell’entità dello spreco alimentare: il cibo che riceve la Rete verrebbe cestinato, eppure viene consumato ogni settimana da più di cinquanta famiglie, un numero che può essere moltiplicato per tutte le altre associazioni affini alla nostra. Lo stesso discorso vale per i supermercati e per i panifici, dai quali ogni sera avanza almeno un bustone con cinque chili di pane.
Tuttavia gli obiettivi della Rete non si limitano all’ambito alimentare. Vogliamo proporre un modello alternativo di socialità di quartiere e contrastare l’atomizzazione dei nuclei familiari. La pandemia ha tanto acuito questi problemi riducendo le occasioni di incontro e costringendole in spazi virtuali quanto fornito le occasioni di affrontarli, stimolando svariate persone a riunirsi in contesti insoliti. Il modello sociale del Rione Libertà era in crisi da decenni perché un quartiere senza spazi verdi, senza spazi culturali, senza posti di ritrovo è destinato all’isolamento.
A partire da febbraio ci siamo proposti di mobilitare sempre più persone del quartiere nelle nostre schiere e abbiamo iniziato a proporlo con insistenza. All’inizio credevo che la frase “più siete e meglio funzionerà la Rete” che ripetevamo per invitarli a collaborare fosse un luogo comune con poco fondamento di verità, ma invece era vero: P. è una cuoca e ha l’ultima parola sulla selezione del cibo, A. è conosciuto in tutto il quartiere e ci fa ricevere molte donazioni, tre ragazzi bengalesi ci hanno permesso di conoscere meglio le abitudini alimentari delle famiglie musulmane e evitare di dare loro verdure che non mangerebbero. Hanno grande spirito di iniziativa, e se i rischi di collaborare con loro sono le incomprensioni e la scoperta di agire con valori e motivazioni differenti (un conto è preparare pacchi per solidarietà, un altro conto è prepararli perché di quei pacchi si ha bisogno), si affronta tutto forti della volontà di costruire un modello mutualistico. Un presupposto importante dell’emancipazione delle classi popolari, in effetti, non può che essere la loro responsabilizzazione. Il progetto politico della Rete è infatti indiretto: nonostante gli evidenti riferimenti visivi alla sinistra extraparlamentare, non è richiesta alcuna accettazione ideologica precisa, ma l’obiettivo è di far formulare alla collettività delle richieste politiche attraverso la condivisione di spazi e momenti autogestiti. Se la consapevolezza dell’assenza di presidi medici rionali aveva portato alla nascita dello Sportello Sociosanitario e la consapevolezza dell’inefficienza del welfare cittadino aveva portato alla nascita della Rete di Mutuo Aiuto Vittorio Cosentino, con il passare del tempo e grazie alla relazione con il quartiere queste consapevolezze hanno avuto tratti più definiti, come ad esempio l’emergenza abitativa, l’esiguo numero di buoni spesa, l’inefficacia delle misure di sostegno al reddito e la necessità di una moratoria sulle bollette dell’acqua. Altre esigenze concrete di cui ci siamo accorti sono quelle di doposcuola e asili, come anche i corsi di italiano per stranieri. Tenere la sede sempre aperta sarebbe estremamente dispendioso per persone che per studio o per lavoro fanno altro, e diventerebbe sostenibile solo grazie alla partecipazione attiva delle famiglie del quartiere. Per il momento, organizzare cene di quartiere all’aperto ci sembra una maniera efficace per favorire occasioni di incontro e soprattutto di svago.
Modelli simili esistono con forme differenti in differenti città: l’OPG Je so’ pazzo a Napoli è l’esempio più famoso, altri sono menzionati in un articolo di Floriana Bulfon per L’Espresso (“E noi ci autogoverniamo”, 28 marzo 2021); si tratta di realtà nate per resistere all’emarginazione e sopperire al sostanziale disinteresse dello Stato. L’isolamento che vivono le famiglie in difficoltà economica è al tempo stesso causa ed effetto di decisioni politiche ed urbanistiche inefficaci: la possibilità di affidarsi alla solidarietà del vicinato e delle reti di mutuo aiuto non rappresenta una soluzione formale e quindi definitiva, eppure è proprio grazie allo spontaneismo e all’entusiasmo di queste iniziative che è possibile ricostruire un tessuto sociale in quartieri stremati.

Vito Ladisa

23 anni, studente di Filologia Moderna all'Università di Bari.

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