Attualità

IL RISVEGLIO DEL MALE

Il presidente russo Vladimir Putin

La guerra è tornata e lo ha fatto nella sua forma più subdola e viscida. Per quanto possa essere irrazionale, la guerra ha un codice etico e chi, infrangendolo, usa i carri armati per travolgere le auto dei civili, non è più un soldato ma è un assassino. La guerra è tornata, a patto che sia mai andata via.

Tra Russia e Ucraina da quasi un decennio va avanti un conflitto strisciante, quasi sussurrato e molto spesso rinnegato. Nel novembre 2013 il presidente ucraino filorusso Viktor Janukovyč, sollecitato dalle sanzioni minacciate dal Cremlino, rinuncia alla sottoscrizione di un accordo di scambio commerciale con l’Unione Europea. Sono ore cruciali, decisive per il futuro di una nazione; pochi giorni dopo, una folla di giovani favorevoli all’ingresso nell’Unione Europea scende in piazza a Kiev dando vita a quella che la Storia battezzerà Euromaidan. In quei giorni il freddo è insopportabile e le temperature scendono sotto lo zero ma i giovani ucraini resistono. Continuano a combattere anche quando la polizia inizia a sparare. Il 21 febbraio 2014, dopo quattro mesi di protesta e circa centodieci vittime, Euromaidan si conclude; il presidente Janukovyč fugge in Russia, nascondendosi dietro alla denuncia di un colpo di stato.

Le proteste pro-UE in piazza a Kiev    

La protesta però si conclude solo idealmente perché una nuova crisi si staglia all’orizzonte: dopo la conclusione delle manifestazioni di Kiev, alcuni soldati russi senza insegne dichiarano l’occupazione della Crimea. La popolazione della penisola, in maggioranza di etnia russa, non avendo mai riconosciuto il nuovo governo nato dopo la fuga di Janukovyč, accoglie favorevolmente l’idea dell’annessione alla Russia. Nel Referendum dell’11 marzo 2014, il 96% della popolazione si dichiara favorevole all’indipendenza dall’Ucraina e all’ingresso nella Federazione Russa (posizione mai riconosciuta da UE e ONU). Pochi giorni dopo, approfittando della presenza delle truppe di Putin su suolo ucraino, un movimento separatista appoggiato dalle stesse truppe russe, prende il possesso della regione del Donbass dichiarando la nascita della Repubbliche Popolari indipendenti.

Nel 2019 durante le elezioni presidenziali ucraine, trionfa Volodymyr Zelenskyj che sceglie di basare la sua azione politica sul contrasto alla corruzione, alla povertà, all’ingerenza russa in Ucraina ma soprattutto promette di porre un freno agli scontri nell’Est dell’Ucraina, in Donbass. Zelenskyj è giovane, sa interpretare i sogni della sua gente e anche se non sempre i sondaggi gli sono favorevoli, sceglie da che parte stare. Come il polline che in primavera vola e impregna gli ambienti, anche l’aria del Mar Nero inizia a trasportare notizie che al Cremlino fanno storcere il naso a troppa gente. L’Ucraina è pronta ad avviare le trattative per l’ingresso nella NATO. Putin non può accettarlo.

Agli occhi dei russi gli schieramenti sono chiari: la maestosa Federazione Russa, patria degli zar prima e di Stalin poi, si impegna a salvare i fratelli ucraini, destinati altrimenti a diventare l’ennesimo stato fantoccio dell’Occidente nell’est Europa. Da una parte c’è Vladimir Putin, l’uomo saggio che cavalca senza maglietta, l’uomo solo al potere, l’ex agente del KGB che, mentre il Muro di Berlino si sgretolava, metteva a repentaglio la sua vita per distruggere i documenti riservati. Dall’altra c’è Volodymyr Zelenskyj, un ex comico che per una congiunzione astrale è riuscito a non cadere vittima dello scandalo sui presunti brogli elettorali orchestrati da Trump, un folle che vuole vendere l’Ucraina all’Occidente. Una lotta impari, dunque, che quasi si fatica a giustificare.

A novembre 2021 alcune immagini satellitari evidenziano un accumulo di forze militari russe al confine con l’Ucraina. L’aria sopra il Mar Nero è diventata densa, pesante; inizia a farsi strada un pensiero che nessuno ha voglia di ascoltare perché, se tradotto in parole, potrebbe avverarsi. Ci si inizia a preparare freneticamente per l’avvento di una guerra che nessuna delle parti in causa dice di voler combattere. Seguono dei mesi ambigui in cui se da un lato il Cremlino denuncia e ridicolizza l’“isteria americana”, dall’altro l’Europa soccombe alla paura cercando di esorcizzarla con la negazione. Mentre l’occidente minaccia sanzioni durissime, un Putin più energico e risoluto che mai, si assicura l’appoggio economico e militare di Cina e Bielorussia. Il presidente russo veste i panni di portavoce in una chiamata alle armi per tutte quelle nazioni ostili alla NATO o perché parte dell’ex blocco sovietico, o perché non allineate. L’Iran, primo fra tutti, senza mezzi termini afferma che se il conflitto dovesse avere luogo, la colpa è da far ricadere esclusivamente sulla NATO che si è imposta in territori non di sua competenza.

Il riconoscimento delle Repubbliche Indipendenti del Donbass, Lugansk e Donetsk, avvenuto il 21 febbraio 2022, serve a rendere i piani del Cremlino ancora più chiari. Questa mossa permette a Putin di avere un accesso diretto sul territorio ucraino nel quale, immediatamente dopo la firma del decreto di riconoscimento, invia mezzi militari russi, tutti rigorosamente senza insegne. L’unico segno di riconoscimento è una grande Z realizzata con la vernice bianca.

La macchina della diplomazia sfodera le sue armi migliori, armi che in questo caso non uccidono. Da Emmanuel Macron a Mario Draghi, da Joe Biden al cancelliere tedesco Scholz, i principali leader europei raggiungono il Cremlino. Seduti attorno ad un tavolo o dietro lo schermo di un computer, gli occidentali che si confrontano con gli occhi glaciali di Vladimir Putin, hanno lo stesso obiettivo: evitare che accada l’irreparabile. Ma l’irreparabile accade.

Alle 3:31 ora italiana, il presidente russo, con un discorso enfatico e diretto, fa sapere al mondo che la guerra è tornata. È la notte del 24 febbraio. “Un ulteriore allargamento della Nato ad est è inaccettabile” tuona Putin, per poi aggiungere “Un attacco diretto alla Russia porterebbe alla sconfitta, a conseguenze terribili per qualsiasi potenziale aggressore”[1]. Ponendosi come il salvatore dei fratelli ucraini, come il vendicatore del “genocidio” perpetrato nei confronti della popolazione russofona che vive nel Donbass, Putin alimenta l’ideale della madre Russia, forte e vigorosa ma soffocata dal nazifascismo occidentale. È in questo modo dunque che l’autocrate del Cremlino nasconde un cinico e deliberato atto di forza sotto l’abito di un’azione necessaria per difendere un popolo che vuole solo vedersi riconosciuti i suoi diritti fondamentali. Il conflitto riguarda la solidità e la sicurezza del potere di Putin, non la prosperità del popolo russo e tantomeno quella di qualsiasi altro stato.

La manovra a tenaglia e i principali teatri di scontro in Ucraina    

L’azione russa è stata rapida ed estremamente dolorosa. Le incursioni, condotte una scala vastissima, hanno dapprima chiuso l’Ucraina in una manovra a tenaglia, per poi puntare a distruggerne il sistema nervoso. La contraerea inutilizzabile, la navigazione nel mare d’Azov chiusa e la pioggia incessante di missili sulle principali città russe mirano a piegare la popolazione e il governo.

La gente ha tre possibilità: scappare con qualsiasi mezzo verso i confini con l’Unione Europea, nascondersi nei bunker sotterranei o combattere. Ma le strade diventano fin da subito un agglomerato di auto incastrate nel traffico, i bunker non sono sempre accessibili a tutti e, infine, chi combatte muore. Il presidente Zelenskyj, che durante le conferenze abbandona il nero dell’abito elegante per indossare la mimetica verde, incoraggia a combattere come si può, a non arrendersi perché la Russia fa paura ma gli Ucraini hanno coraggio. Intanto le truppe di Putin entrano nelle principali città, compresa Chernobyl. Si moltiplicano le azioni eroiche dei gruppi e dei singoli, nessuno ha voglia di farsi da parte per far passare i carri armati russi, dovesse costare la vita.

Mosca non rimane in silenzio e, attraverso il ministro degli esteri Lavrov, fa sapere che la Russia non ha attaccato con l’intento di invadere l’Ucraina ma di liberarla dal governo di Zelenskyj, troppo orientato ad Occidente. Lavrov puntualizza che la guerra è stata causata dall’indifferenza della NATO rispetto alle sofferenze delle popolazioni russe in Donbass.

Reperire informazioni sul reale svolgimento dei fatti è difficilissimo per entrambi gli schieramenti. La guerra della disinformazione è una tra le armi più violente e fuorvianti. Mentre il governo russo chiude profili social e testate giornalistiche online, le forze armate scendono in piazza e arrestano chiunque protesti contro la guerra in Ucraina. In Russia per decreto governativo le manifestazioni di piazza sono proibite e dall’inizio della guerra sono stati arrestati più di duemila russi.

Intanto le truppe di Putin premono con i loro mezzi intorno alla capitale Kiev, in città cadono bombe e missili senza distinzione tra giorno e notte. Il mondo si chiede perché la colossale forza militare russa tentenni ad entrare in città. Emergono ipotesi che parlano di un timore che le milizie hanno di oltrepassare un punto di non ritorno. Intanto nelle strade della capitale si aggirano gruppi di civili con mimetiche improvvisate, stringendo in mano armi che hanno imparato ad usare nel giro di qualche ora. Chi può in casa fabbrica molotov usando le bottiglie di birra. Chiunque si trovi all’esterno durante le ore di coprifuoco, è considerato un nemico alla stregua dei russi. All’ingresso delle città la gente copre i segnali stradali di bianco o li distrugge completamente, tutto finalizzato a disorientare chiunque cerchi di entrare in città.

Un intervento diretto della NATO comporterebbe lo scoppio della Terza Guerra Mondiale [2], motivo per cui l’Occidente ha scelto di agire attraverso le sanzioni. Mosca, tra gli altri provvedimenti, sarà colpita al cuore della sua economia tramite l’esclusione dal sistema SWIFT, meccanismo che agevola le transazioni internazionali. Sanzionare la Russia senza avere ripercussioni sull’economia occidentale è difficilissimo, quasi impossibile. La situazione è completamente squilibrata tra chi, fortemente dipendente dagli approvvigionamenti di gas russo, tentenna sull’entità delle sanzioni, e chi al contrario propende per il pugno duro.

Il clima ribolle. Con le frasi di circostanza si corre il rischio di illudere chi, come gli ucraini, vive mezz’ora per volta, sperando che le sirene non suonino, che quel missile cada un po’ più in là e che i russi se ne vadano.


[1] https://www.repubblica.it/esteri/2022/02/24/news/crisi_ucraina_russia_putin_dichiarazione_guerra_preregistrata-339086130/

[2] https://www.corriere.it/esteri/22_febbraio_26/biden-terza-guerra-mondiale-4ac0546e-974d-11ec-ae45-371c99bdba95.shtml

Francesca Antelmi

21 anni, pugliese, studentessa di Lettere Moderne a Lecce.

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