Il sultano di Ankara
La Turchia non è più una democrazia. Anno dopo anno ogni libertà è stata ridimensionata, corretta e plasmata per farla aderire meglio alle esigenze di un regime che assume fattezze terribilmente autoritarie.
Recep Tayyip Erdoğan stringe avidamente in mano le redini della nazione che con il tempo sta assumendo una posizione-guida nel processo di re-islamizzazione che dura da quasi vent’anni. L’obiettivo è quello di lavare via il ricordo di un nazionalismo turco laico, sostituito da un neo-ottomanismo che al proselitismo affianca una larga componente di interventismo militare. Da un lato dunque si delinea l’ingombrante sagoma storica di Mustafa Kemal, fondatore e primo presidente della Turchia, rivoluzionario, laicista, con lo sguardo fiducioso sempre rivolto all’Occidente; dall’altro domina la scena l’attuale presidente turco, eletto nel 2014 dopo essere stato forgiato da un’intensa attività politica la cui alba risale alla fine degli anni Settanta.
Temuto dall’Occidente ma osannato dai rapper nelle piazze di Istanbul, ossessionato dalla restaurazione del califfato, il presidente Erdoğan è tra gli uomini più controversi del nostro tempo. Spalleggiato dal suo partito AKP (Partito della Giustizia e dello Sviluppo), è annoverato tra le più influenti personalità che respingono le accuse di genocidio ai danni della popolazione armena. L’eccidio risale agli anni che hanno preceduto la Prima Guerra Mondiale, quando la Turchia era in mano ai “Giovani Turchi”, un movimento politico nato dal sogno di ricostruire la madrepatria, partendo dalle macerie lasciate dalla frantumazione dell’impero ottomano nei Balcani. Tale area geografica era principalmente abitata da musulmani, eccezion fatta per l’unica comunità cattolica, quella armena; per i “Giovani Turchi” era una spina nel fianco, una macchia da lavare via, un ostacolo per la ricostruzione basata in gran parte sul principio dell’identità religiosa. Tra il 1915 e il 1916, 1,5 milioni di armeni furono assassinati. La maggior parte di essi morì durante le marce della morte; le donne che riuscirono a sopravvivere vennero costrette a convertirsi all’Islam, i bambini furono strappati dal seno materno per essere dati in adozione a famiglie turche. Quello armeno è considerato il primo genocidio del XX secolo, ignobile antenato di quella macchina infernale che decenni dopo avrebbe sterminato sei milioni di ebrei.1
In Turchia parlare pubblicamente di “genocidio” costituisce reato, punibile con la detenzione dai sei mesi ai due anni. “Gli armeni sono morti di fame”. “Gli armeni erano filorussi, le uccisioni sono giustificate”. “Nel 1915 la parola genocidio non esisteva ancora”. Il regime rinnega non solo il coinvolgimento turco nell’eccidio ma il fatto stesso che sia avvenuto, tanto che l’argomento è censurato dai libri di scuola.
Il negazionismo turco nei confronti del genocidio armeno rientra nell’orwelliano progetto di asservimento delle masse attraverso la rielaborazione del passato. Erdoğan è un autocrate, reclama un potere assoluto, ha un disperato bisogno del supporto del popolo e, in linea di principio, ottiene un sostegno incondizionato attraverso due principali strumenti: la manipolazione del voto e il controllo sui principali mezzi di comunicazione.
Negli ultimi anni in Turchia le libere elezioni, diventate ormai un miraggio, hanno lasciato il posto a veri e propri plebisciti. Le classi popolari sono amabilmente accompagnate ai seggi, incoraggiate da una voce calda e paterna che assicura loro il perpetuarsi di un preciso progetto politico-religioso, unico rimedio per le insidie della modernità. Per gli esponenti dei partiti di opposizione, invece, l’AKP mette in campo i peggiori strumenti intimidatori: minacce, detenzioni immotivate e arbitrari divieti di associazione politica rivolti agli avversari.
Il presidente turco ha inoltre preteso e ottenuto, il 29 luglio 2020, una legge che regolamenta la censura nei confronti di social e dei mezzi di comunicazione in genere. Quattro mesi prima Erdoğan aveva presentato una proposta di legge simile per poi ritirarla subito dopo. Quella di luglio invece ha spiccato il volo per poi entrare in vigore ad ottobre. Tale legge prevede l’estensione del potere delle autorità giudiziarie delle telecomunicazioni che controllano già i principali social network; tali autorità possono nominare in completa autonomia dei rappresentanti locali, al fine di rendere il controllo ancora più capillare; i gestori dei social devono archiviare i dati degli utenti e renderli disponibili se le autorità dovessero farne richiesta; se entro 48 ore i dati oggetto d’indagine non dovessero giungere agli uffici competenti, i gestori dei social rischierebbero multe esorbitanti e ripercussioni gravissime sulla capacità d’accesso ad internet. La vera vittoria di Erdoğan consiste nel fatto che il regime non solo può bloccare l’accesso ad un determinato URL, ma può anche deliberatamente eliminarne il contenuto, censurare porzioni di testi e oscurare intere pagine.2
Parallelamente, il novanta per cento della carta stampata e dei media radio-televisivi è già in mano al regime; i media ancora indipendenti devono adeguarsi a rigidissimi controlli e cesure che, non di rado, portano alla decisione di oscurare i programmi per interi giorni.
Perché dunque estendere il controllo anche ai social, se il regime padroneggia già media e giornali? Erdoğan è avido di potere e vuole che l’unica voce ad avere un’eco sia la sua; i social rappresentano la miglior (e forse anche unica) arma di propaganda politica per l’opposizione turca e per coloro che, nonostante tutto, continuano a voler sovrapporre la loro voce di verità a quella violenta del regime. Non sorprende dunque il fatto che, nella classifica World Press Freedom 2020, la Turchia sia posizionata al 154° posto su 180 nazioni. 3
Durante la notte del 15 luglio 2016, il soffocante clima di oppressione ha fatto piombare la Turchia nel caos; Ankara ed Istanbul hanno vacillato sotto il peso di un colpo di stato. I golpisti, quasi tutti appartenenti ai corpi armati turchi, hanno occupato il ponte sul Bosforo con i carri armai, dichiarando guerra al regime. Attacchi e contrattacchi si susseguono con una rapidità isterica. I ribelli occupano la sede del partito AKP, l’aeroporto, il quartier generale dell’esercito e quello della polizia. Entrano in vigore la legge marziale e il coprifuoco. Contemporaneamente Erdoğan, attraverso FaceTime rilascia una dichiarazione a CNN Turk in cui chiede alla gente di scendere in piazza, di combattere contro i traditori. Il presidente è volato via, al sicuro, in un luogo sconosciuto. Attraverso un comunicato trasmesso in TV i golpisti dichiarano le loro intenzioni: prenderanno il potere e saranno i garanti di democrazia e laicità.
Alle 11.50 del 16 luglio 2016 fonti ufficiali confermano il fallimento del golpe.
Più di cento golpisti muoiono la stessa notte; quasi trecento civili perdono la vita. Verranno poi definiti “martiri”.4
Tanto è stato scritto, dalle immediate reazioni di condanna da parte dei principali leader internazionali, alle più fredde e caute condanne dei giorni successivi. Erdoğan è convinto che a capo dell’azione sovversiva ci fosse il predicatore turco Fethullah Gulen; Gulen dice che il vero ideatore fosse il presidente stesso. Da un lato le ipotesi, la speculazione, gli intrighi di palazzo; dall’altro le vittime, le torture, gli arresti, le sentenze. Il 7 aprile scorso sono state condannate quasi cinquecento persone accusate di aver preso parte al golpe; tra di essi anche l’ex tenente colonnello che ha pronunciato quel comunicato, oscuro presagio di un’orrenda disfatta.
“Pagheranno il prezzo più alto” aveva detto il presidente. Ha tenuto fede alle sue parole.5
Sul piano della politica estera, il presidente turco avverte lo spasmodico bisogno di porre il suo veto nell’ambito del conflitto siriano che, nato nel 2011 sull’onda delle “Primavere Arabe”, continua a mietere vittime. Durante i suoi dieci anni di vita, lo scontro ha saputo tenere accesa l’attenzione mediatica su di sé: in un paese in cui il novanta per cento della popolazione versa in condizioni tragiche, in cui la pandemia ha assestato il colpo mortale ad un apparato sanitario già sull’orlo del collasso, l’avvicendarsi di ambigue alleanze e di sottili trame politiche ha favorito la nascita di un quadro inestricabile dal terribile odore di morte.
Il conflitto nasce come una pacifica protesta contro il regime di Bashar-al-Assad, il quale in un primo momento sembra anche voler cedere alle richieste dei manifestanti che si battono per ottenere migliori condizioni di vita e di lavoro. Da un momento all’altro scoppia la più cruda violenza: da un lato il regime di Assad e il suo esercito che rapiscono, torturano e uccidono in modo arbitrario. Dall’altro il gruppo dei ribelli, tra i quali nel 2015 inizia ad emergere la componente fondamentalista jihadista che più tardi darà vita all’autoproclamato Stato Islamico, l’ISIS. Una guerra nella guerra alla quale USA, Israele, potenze europee ed orientali cercano di prendere parte per ostacolare l’inarrestabile espansione dell’ISIS. Esattamente ad agosto 2016 Erdoğan entra illegalmente in Siria al fine di “proteggere i confini turchi”. Non ne uscirà più.
Mentre Erdoğan finanzia i jihadisti con supporto militare e armi pesanti, nel 2018 Assad, con il benestare e il supporto aereo di Putin, riconquista Aleppo usando deliberatamente armi chimiche sui civili nei mercati, sui bambini nelle scuole e sui malati negli ospedali. Migliaia sono stati i civili morti tra atroci sofferenze. Chi è rimasto nei villaggi rasi al suolo dal regime è stato preso di mira dai terroristi: gli uomini torturati e uccisi, le donne rapite e stuprate.
Il conflitto è ora in una fase di paralisi: gli USA hanno imposto pesanti sanzioni alla Siria nonostante le svariate richieste di ritirarle perchè hanno ricadute solo sui civili; Assad è stato isolato anche dai principali finanziatori del conflitto, gli imprenditori; Putin estende i suoi tentacoli insanguinati sul territorio siriano; Erdoğan non ha portato a termine nessuno dei propositi in vista dei quali era stata tacitamente approvata la sua permanenza sul suolo siriano. 6
A febbraio 2020 l’esercito turco ha coadiuvato i gruppi terroristici nell’area di Idlib, respingendo la minaccia dell’esercito siriano. Situato nella Siria nord-occidentale, vicino al confine con la Turchia, il governatorato di Idlib è ancora in mano ai ribelli siriani: è da qui che partono i profughi usati da Erdoğan per ricattare l’Unione Europea. L’UE, e in particolare la componente di estrema destra del Parlamento europeo, per frenare la minaccia dell’ingresso dei migranti siriani nella rotta balcanica, ha promesso al presidente turco un compenso di tre miliardi di euro per tenere all’interno dei suoi confini quattro milioni di profughi siriani. Fin da subito una percentuale non indifferente di uomini, donne e bambini sono stati rimandati indietro, in aperta violazione del principio di non respingimento. Dalla fine di febbraio 2020 sono ricominciati gli sbarchi dei profughi sulle isole greche; il New York Times ipotizza che una dozzina di pullman con circa seicento migranti a bordo, siano stati portati oltre il confine turco-greco con il benestare dell’esercito e del regime.
Ancora una volta la Turchia ha battuto il pugno sul tavolo dell’Unione dicendo “La minaccia è reale, a voi la scelta”.7
In Turchia lo stato di diritto è un amaro ricordo. Le parole sono oscurate, le voci sono soffocate, i pensieri sono persi nel buio della condanna. Una coltre nera, un torpore mortale è caduto sulla memoria del popolo turco. Erdoğan si staglia all’orizzonte come l’unica figura reale in un mondo di ombre proiettate.
1. Cosa fu il genocidio degli armeni, Il Post, 25 aprile 2021, https://www.ilpost.it/2021/04/25/cosa-fu-il-genocidio-degli-armeni/
2. M. Giustino, Censura sui social media. La Turchia vuole una voce sola, quella di Erdoğan, Huffington post, 29 luglio 2020, https://www.huffingtonpost.it/entry/censura-sui-social-media-la-turchia-vuole-una-voce-sola-quella-di-erdogan_it_5f2195c4c5b6b8cd63b0be5a
3. REPORTERS WITHOUT BORDERS – World Press Freedom index 2020, https://rsf.org/en/ranking
4. A. Custodero, Turchia, fallito il colpo di Stato contro Erdogan. Ore di caos nel Paese: almeno 90 morti e 1563 golpisti arrestati, la Repubblica, 15 luglio 2016, https://www.repubblica.it/esteri/2016/07/15/news/turchia_istanbul_spari-144191465/
5. Maxi processo per golpe 2016 in Turchia, ergastoli per vertici militari, Rai News, 7 aprile 2020, https://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/maxi-processo-golpe-turchia-ergastoli-vertici-militari-1743470b-3905-4bb8-9363-b39f1fba7154.html
6. A. Gaiardoni, La Siria è in guerra da dieci anni e non si vede la fine, Il Bo Live, 18 gennaio 2021, https://ilbolive.unipd.it/it/news/siria-guerra-dieci-anni-non-si-vede-fine
7. G. Gagliano, Siria, Libia e non solo. Come Erdogan espande la rete della Turchia, Start Magazine, 30 giugno 2020, https://www.startmag.it/mondo/siria-libia-e-non-solo-come-erdogan-espande-la-rete-della-turchia/