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Narrarsi in fabbrica

Si può parlare della fabbrica Ex-Ilva nei termini di un vero e proprio dramma sociale che, tuttavia, ha come eventi critici fattori gestionali-politici-economici.

È arrivato il momento di prendere atto del fatto che ci troviamo davanti a un decentramento del ruolo dell’uomo all’interno dei contesti lavorativi.

Questo decentramento trova espressione in un tipo di politica “lineare”, così definita in quanto richiama alla mente l’immagine di una linea retta che ha una sua traiettoria e un suo obiettivo prefissati, e che non si ferma davanti a nessuna problematica di natura umana.

Questo tipo di politica, ormai da anni, si cerca di sostituirla a politiche “circolari”: è un termine che troviamo soprattutto nell’ambito del dibattito ambientalista, che ha come obiettivo centrale quello di attuare un pensiero preventivo rispetto alle azioni che si compiono. In sostanza, si tenta di anticipare i problemi e, in relazione ad essi, ripensare le traiettorie e creare percorsi di cambiamento sostenibili che tengano in conto dei rapporti causa-effetto tra ciò che facciamo oggi e quello che potrebbe accadere un domani.

La domanda fondamentale è: vogliamo ancora continuare ad anteporre la razionalità dei mezzi a quella dei fini1? Quello che è accaduto con l’industrializzazione, nei primi anni, è stato un assoggettamento della ragione a mero strumento per il raggiungimento di obiettivi di sviluppo e produzione, senza possibilità di riflessione sulla sostenibilità di questi ultimi nel lungo termine.

In questo senso il termine sostenibilità non si riferisce unicamente a un discorso di salvaguardia dell’ambiente, ma anche di salvaguardia e rispetto della vita umana: le due cose risultano più che mai essere collegate.

Superando quindi un’immagine tecnica della vicenda, e rimettendo al centro l’uomo, emerge quanto sia importante soffermarci ad analizzarla anche attraverso prodotti che siano tipicamente umani: le narrazioni.
Innanzitutto possiamo analizzare le narrazioni che ci sono state proposte dall’alto. A questo proposito un interessante articolo a cura della Prof.ssa e Sociologia Marta Vignola, ci parla di come si sia passati da narrazioni utopiche della fabbrica come “madre nutrice” a narrazioni distopiche in cui la fabbrica è una “dea assassina”.
All’interno di queste narrazioni distopiche tutto è stato ribaltato, l’Ilva da opportunità diventa distruzione. Ci si è fatti coinvolgere dalla narrativa industriale, in cui “la retorica sviluppata trasforma l’inferno industriale in una cattedrale” poggiandosi su vantaggi economici (occupazione) e vantaggi simbolici (promessa di felicità e sicurezza)2.

L’apice della narrazione distopica viene raggiunto nella costruzione politica e mediatica del problema sanitario e ambientale tarantino, visto come una vertenza lavorativa che rischia di far saltare il PIL italiano, costruendo una dicotomia tra lavoro e salute che riduce drasticamente la complessità del problema. È la creazione di questa dicotomia che scatena la lotta tra poveri a cui assistiamo, tra chi sostiene la vita e chi il lavoro, spostando quindi la responsabilità sui lavoratori, invece di assegnarla a chi di competenza: stato, magistratura e azienda, che dovrebbero operare congiuntamente. 

“La salute pare essere un affare dei lavoratori e non un affare dell’azienda, se non a seguito di denunce, di sollecitazioni da parte del dipartimento di prevenzione dell’Asl o dell’Arpa, oppure come effetto della concentrazione dell’attenzione mediatica cresciuta dopo il 2012 su alcuni particolari casi di malattia o di morte di dipendenti in alcuni reparti.”3.

Allo stesso modo, possiamo fermarci ad ascoltare le narrazioni dei lavoratori e dei cittadini, raccogliendo gli indizi presenti nelle stesse per evincere la condizione di ricatto occupazionale ed emotivo in cui vivono.

Tutte queste persone hanno bisogno di parlare, lo fanno nei telegiornali, in radio, tramite la stampa, tuttavia nessuno si assume la committenza del grido di aiuto che viene lanciato. Innanzitutto la committenza di aprire spazi di dialogo opportuni e seguiti da figure professionali apposite. 

Quello che nella realtà viene fatto, è invece montare le barricate sui piani direzionali dell’ Ilva, lo spazio per un dialogo vero non c’è, come viene riportato dai lavoratori.

Questa mancanza di dialogo è testimoniata anche dalla difficoltà dei sindacati nell’ottenere giustizia per tutti i cittadini tarantini e non: ci sono voluti più di venti anni per arrivare a una sentenza che condanni gli ex proprietari dello stabilimento per avere svenduto l’ambiente e le vite umane, eppure siamo ancora lontani dall’ottenere giustizia, che dovrebbe passare attraverso un piano di azione che porti a una rivalutazione del territorio tarantino e conseguente creazione di nuove opportunità.

La crisi dell’ex-Ilva è soprattutto una crisi relazionale, il fallimento della condivisione di un contesto e territorio comune, una mancata legittimazione del ruolo che i cittadini e i lavoratori hanno nel decidere le sorti del loro territorio e delle loro vite. Le regole del gioco di un’azienda dovrebbero basarsi su reciproco rispetto, chi è al comando dovrebbe garantire la soddisfazione dei bisogni primari, in cui rientra il bisogno di sicurezza e i bisogni fisiologici fondamentali. Senza di essi, viene compromessa la possibilità di ogni lavoratore di sentirsi realizzato a livello prima umano e poi lavorativo, con conseguenti danni a livello psicologico.

In particolare, la violazione delle regole del gioco in questo caso è stata compiuta tramite la pretesa, alla base della quale c’è la fantasia di possedere, di avere tutto per sé: il lavoratore non è più una persona ma diventa oggetto per l’impresa.
Con la pretesa si imbriglia la prestazione professionale entro le proprie fantasie, in questo caso fantasie riguardanti la produzione come unico scopo e il lavoratore come sommesso a questo fine. 


1. T. W. Adorno, La scuola di Francoforte, Einaudi, 2005

2. “Taranto come utopia distopica. Narrazioni letterarie e sociologiche di un modello di sviluppo”, Corrado Punzi e Marta Vignola

3. Rossi Giovanna, “Voci dall’Ilva”, 2017

Claudia Rucco

Pugliese, 23 anni, studentessa di Psicologia Clinica alla Sapienza

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