Cinema

Un’ombra negli occhi, la recensione

Un’ombra negli occhi (“Skyggen i mit øje”), pellicola del regista danese Ole Bornedal, racconta, a distanza di quasi settantasette anni, un danno collaterale assai dolente (e tuttavia mai prima d’ora sottratto al dimenticatoio) provocato da un’operazione militare della RAF britannica sul suolo danese. 

Bornedal porta in scena un dramma corale con il quale scandaglia diverse risposte all’orrore della guerra.

In una giovane Suor Teresa, inorridita dalla disumanità nazista, inizia a vacillare la certezza circa l’esistenza di Dio (brillante è l’escamotage con il quale prova a giustificare alle sue giovani alunne l’apparente disinteresse di Dio verso la sofferenza delle sue creature sulla Terra: «Le ore, i minuti e i secondi di Dio sono del tutto diversi dai nostri, […] per Dio un singolo giorno può durare cento anni»; indi un solo attimo di distrazione di un «Dio (che) non dorme mai» potrebbe durare anni e giustificare, così, il suo mancato intervento).

Un altrettanto giovane Frederick, esponente dei corpi ausiliari HIPO istituiti dalla Gestapo in Danimarca, cerca la “redenzione” in vista dell’imminente sconfitta nazista.

Anche i protagonisti più giovani del film, Henry e sua cugina Rigmor, reagiscono in maniera differente dopo aver assistito entrambi ad eventi scioccanti: Henry sviluppa un disturbo post-traumatico da stress (DPTS) in seguito al quale perde l’uso della parola e avverte una sensazione di paralizzante terrore alla vista di un cielo terso; Rigmor appare invece molto più serena risultando così la controparte vivace della coppia.

Il film catalizza l’attenzione dello spettatore sì per merito della natura drammatica della vicenda che racconta, ma anche (e soprattutto) per merito di un eccellente lavoro di regia.

Qualche esempio: 1) il ricorso – durante la seconda parte del film – al montaggio alternato (i. e. rapida alternanza di scene che lo spettatore accetta come simultanee nonostante le stia guardando in sequenza e che convergono verso una risoluzione comune) unisce gli intrecci presenti nella prima parte e, allo stesso tempo, accresce progressivamente la tensione nel pubblico; 2) lo shaky camera effect (effetto scuotimento) rende particolarmente realistiche le scene girate all’interno dei caccia della RAF, così come coinvolge lo spettatore nella corsa dei genitori verso le rovine della scuola bombardata; 3) il succedersi di quattro inquadrature (dettaglio, mezzo primo piano, piano lunghissimo, nuovamente dettaglio) nei trenta secondi immediatamente successivi ai titoli di testa e alla premessa “storica” (per intenderci: dal minuto 1:01 al minuto 1:33) anticipa l’intenso dinamismo del finale.

In merito a quanto detto nell’ultimo punto elencato, ho anche particolarmente apprezzato la scelta adottata dal regista di dare alla propria opera una struttura circolare: rimandi e analogie costellano tutta la narrazione e sarà, incredibilmente, proprio il capovolgimento finale (non volendo fare spoiler) ad aiutare lo spettatore a prenderne atto.

Una menzione speciale meritano le ultime scene che vedono come protagonista Suor Teresa (interpretata dalla straordinaria rivelazione Fanny Bornedal). La rotazione della camera sull’asse ottico (in senso antiorario), un ticchettio strisciante che sottende le parole della giovane suora e, per ultima, la tanto brillante quanto struggente interpretazione della Bornedal caricano le scene di pàthos al punto tale da indurre ad una totale immedesimazione emotiva (ma potremmo anche azzardare aggiungendo “fisica”).

Infine, consiglio vivamente la visione in lingua originale.

*Un ringraziamento ad Antonio Nicolì (diversi suoi articoli sono presenti su questo blog) per i preziosi chiarimenti di natura tecnica senza i quali la presente recensione non avrebbe avuto quella completezza che richiede l’analisi di un film, a mio avviso, straordinario.

Sarah Guarino

Sarah Guarino, classe ‘99, vive a Francavilla Fontana. Attualmente studia Lettere Moderne all’Unisalento.

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