Attualità,  Economia

No Justice, no Peace! Hayek non sarebbe d’accordo.

Friedrich August von Hayek (Vienna 1899 – Friburgo in Brisgovia 1992)

La libertà, intesa «[…] come uno stato in cui in cui ciascuno può usare la sua propria conoscenza per i suoi propri scopi […]», che Hayek ha posto a fondamento dell’ordine del mercato, garantisce «[…] le migliori condizioni in cui gli individui possono raggiungere le loro mete»? 

Nell’opera “Legge, legislazione e libertà” (da cui trarremo delle citazioni) del 1973, il filosofo ed economista Friedrich August von Hayek (d’ora in avanti Hayek) ha fornito un contributo fondamentale all’impianto del neoliberalismo. Lo stesso autore aveva partecipato decenni prima al colloquio “Walter Lippmann”, incontro internazionale tenutosi a Parigi nel 1938 in cui venne coniato il termine “neoliberalismo”, inteso come critica e superamento del liberalismo classico troppo incentrato sul principio del laissez-faire. Solo nel 1936 veniva pubblicata la “Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta” dell’economista inglese John Maynard Keynes secondo cui gli investimenti pubblici, garantendo reddito e occupazione, avrebbero dovuto sostenere la domanda. Uno dei più grandi oppositori fu proprio il filosofo austriaco. Scopriremo perché. 

 Quali sono i presupposti fondamentali del discorso di Hayek? E, soprattutto, cosa intende per libertà? Vedremo le continuità e le rotture che Hayek impone con il discorso del liberalismo classico e nello specifico con l’opera dell’illuminista Locke, lettura fondamentale per l’economista austriaco. Cosa aspettarci, infine, dal neoliberalismo? Dopo la crisi del 2008, l’epidemia di Sars-Cov-2 ha costretto gli Stati nazionali a mettere in discussione le proprie capacità produttive e di intervento a sostegno della popolazione. Questa “ideologia” sarà in grado di assorbire le crisi che attraversa trasformandole in momenti produttivi dell’ordine spontaneo? Cominciamo dal concetto di libertà.

Nel discorso di Hayek è un risultato di altre dinamiche; quindi occorre prima specificare due premesse della teoria. Innanzitutto, il filosofo austriaco polemizza con il “razionalismo costruttivista” secondo cui si «[…] assume che tutte le istituzioni sociali siano, o debbano essere, il prodotto di un progetto deliberato». È la critica mossa ai sostenitori dell’economia pianificata in cui, direbbe Hayek, l’organizzazione sociale – per noi lo Stato – decide fini specifici (giustizia sociale per esempio) che gli individui sono costretti a seguire, decretando così la fine delle libertà personali. Il razionalismo costruttivista appare, quindi, la logica conseguenza di un’erronea (Hayek in tutta la sua opera sottolinea sempre cosa è giusto e cosa sbagliato) interpretazione dell’intelligenza umana, concepita estranea rispetto alla realtà osservata, quando, invece, «[…] è essa stessa un prodotto del medesimo processo di evoluzione cui sono dovute le istituzioni sociali». È evidente in queste parole l’influenza della teoria dell’evoluzionismo di Darwin su Hayek. Pertanto, la libertà, come le altre regole sociali, è un risultato di un processo di evoluzione e selezione che negli anni ha stratificato le attitudini ed i comportamenti più performanti. Non tutti i comportamenti, solo quelli più performanti, ma per chi e per cosa? Seguendo il ragionamento di Hayek, se si afferma che l’intelligenza umana è un risultato, conseguentemente occorre affermare l’ignoranza del genere umano rispetto al processo in cui è coinvolto. Come scrive Hayek, la ragione umana vive «[…] l’incapacità di riunire in un insieme controllabile tutti i dati che riguardano l’ordine sociale». Quindi, il fatto che noi ignoriamo di essere coinvolti in una dinamica registra un altro passaggio fondamentale che riguarda la possibilità stessa per noi di vivere e agire. Infatti, se il genere umano è ignorante e non può scegliere consapevolmente gli scopi specifici verso cui indirizzare la società, occorre trovare un altro fondamento alla base dell’evoluzione. Gli uomini e le donne non conoscono compiutamente la totalità degli elementi che agiscono nel mondo, perciò non possono scegliere di indirizzare la società verso specifici scopi: ad esempio l’equità, la gratuità dell’istruzione e l’accesso alle cure. Poiché «l’uomo cominciò ad agire prima di aver cominciato a pensare, e non cominciò a comprendere prima di aver iniziato ad agire», allora la Great society si comporrà di individui la cui conoscenza è pratica, legata prioritariamente alle “regole d’azione” che forniscono i comportamenti di maggior successo per salvaguardare la condizione di libertà. L’evoluzione cioè è proseguita nonostante la nostra ignoranza, anzi, la mancanza di una consapevolezza totale delle cose che ci circondano, ha fatto sì che gli uomini e le donne si dotassero dell’attitudine del fare più che pensare di fare.

Il punto di svolta per Hayek risiede nell’idea che il fare che si è imposto alla base dei comportamenti umani, sia un fare capace di stabilire un ordine: quello in cui si esercita la massima libertà. Le regole, quindi, sono attitudini e comportamenti che aiutano gli individui a produrre continuamente rapporti sociali senza essere ostacolati dalla intrinseca inconsapevolezza che risiede in ogni loro azione. È un’esperienza della vita quotidiana: noi agiamo anche quando non possediamo tutti gli elementi utili a conoscere esattamente come agire. Inoltre, le regole, poiché sono selezionate dall’evoluzione sociale, risultano naturalmente le migliori, cioè quelle che garantiscono la libertà individuale di ognuno. Ma quale attributo le caratterizza? Perché sono funzionali alla realizzazione della libertà? Ce lo spiega Hayek. 

La tesi di “Legge, legislazione e libertà” è che la condizione di libertà in cui a tutti sia permesso di utilizzare la propria conoscenza per i propri scopi, e in cui i soli limiti derivino da regole di mera condotta di applicazione universale, produca le migliori condizioni in cui gli individui possono raggiungere le loro mete. Non è stato ancora definito, ma ci sono già gli elementi per delineare l’ordine spontaneo tanto caro ad Hayek: è uno stato di cose in cui gli individui sono in relazione tra loro, possiedono una conoscenza parziale dei fenomeni e utilizzano le informazioni che acquisiscono da comportamenti e scelte altrui per formarsi aspettative attendibili circa le conseguenze delle loro azioni. Possiamo raffigurarci l’omino di Hayek come un individuo tanto o poco ignorante (letteralmente, che ignora), attento a cosa fanno e come fanno gli altri per trarne informazioni utili a fare le scelte giuste per lui.

Due considerazioni, adesso, sono necessarie per non semplificare il discorso di Hayek. La prima è che l’autore riconosce la possibilità di modificare la Società. Tuttavia, il peso della tradizione e delle abitudini influenza ogni scelta deliberata da una comunità politica. La seconda, invece, è che sono contemplate nel discorso organizzazioni anche con fini specifici quali potrebbero essere una scuola o una fabbrica oppure un ospedale; questo sarebbe in contraddizione con quanto detto prima. Ciò nonostante, il fatto che esse siano separate nei loro fini permette la loro ricomposizione all’interno delle dinamiche dell’ordine generale la cui spontaneità non è messa in discussione. In effetti, un ordine spontaneo, non generato volontariamente da una coscienza, non può avere un fine determinato. In sintesi, la libertà si può esercitare solo se l’individuo può, almeno potenzialmente, adottare gli strumenti necessari a raggiungere il fine che si è prefissato coerentemente con le sue aspettative, prescindendo da ciò di cui avrebbe bisogno la società in cui vive. Tuttavia, Hayek decide di dare un carattere ideologico al discorso, traccia una linea separativa tra aspettative legittime e meno, tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. L’istituto della proprietà privata, (come nella definizione datene da John Locke) «la vita, la libertà e i possessi» di ogni individuo, è la sola soluzione finora scoperta dagli uomini per risolver il problema di conciliare libertà individuale con l’assenza di conflitti. Legge, libertà, proprietà, sono una trinità inseparabile. La proprietà privata diventa il criterio discriminatorio tra le differenti aspettative che animano le azioni degli uomini. In altre parole, la libertà si configura come un’azione che produce i suoi effetti in spazi delimitati, ma pienamente disponibili, appunto la proprietà. Hayek cita il “Secondo trattato sul governo” di Locke, che uscì anonimo assieme al primo nel 1690 in un contesto che poco tempo prima aveva visto maturare la “gloriosa rivoluzione”, concludendo il conflitto tra re e parlamento. 

Il filosofo scozzese intitola il capitolo V, “Della proprietà”, di cui si riporta l’incipit: «Dio, come dice il re Davide (Salm. CXV, 16), “ha dato la terra ai figli degli uomini”, cioè l’ha data agli uomini in comune». Continuando, Locke racconta la genesi della proprietà, indentificandola col lavoro: «[…] ognuno ha la proprietà della propria persona, alla quale ha diritto nessun altro che lui. Il lavoro del suo corpo e l’opera delle sue mani possiamo dire che sono propriamente suoi». Le affinità tra Hayek e Locke sono evidenti nella misura in cui anche per quest’ultimo la linea che conduce dalla libertà alla legge, dalla natura alla società, è percorsa nel segno della continuità, della spontaneità. Infatti, nel capitolo “Dell’origine delle società politiche”, Locke racconta la nascita consensuale delle società che hanno lo scopo, tra le altre cose, di permettere agli individui di godere del «[…] sicuro possesso delle proprie proprietà» sottoponendo ciascun cittadino ai «[…] vincoli della società civile». Hayek ha sicuramento apprezzato il passaggio in cui Locke colloca la nascita del mercato nello stato di natura, cioè prima della società. Ponendo l’identità di lavoro e proprietà, Locke individua come unico limite all’accumulazione quello della deperibilità dei prodotti. Brutalmente, più tu lavori, più tu produci, più puoi possedere. Ad un certo punto, tuttavia, il prodotto deperisce: qui interviene la moneta che introietta il valore dei prodotti ed inaugura lo scambio, cioè il mercato. Per riassumere, la moneta introduce una differenza qualitativa tra gli individui: c’è il proprietario di moneta e chi per acquisirla deve lavorare. Marx direbbe che c’è il borghese che concia la pelle e il proletario che la vende per sopravvivere. Per usare le parole di Locke: «questa partizione di beni nell’inuguaglianza di possessi privati, gli uomini l’hanno resa possibile fuori dai limiti della società e senza contratto […]». Quindi, lo scambio tramite moneta, il mercato, nasce prima della società, è qualcosa che si trova spontaneamente in natura. Gli uomini nascono nello scambio, prima che in una società. È una regolarità, direbbe Hayek, che l’uomo scopre come istituzione sociale prima che qualsiasi legge positiva le desse forma. Perciò, ricapitolando, gli individui devono giocare con le regole date (Hayek parla del mercato come di un gioco), maturando un’aspettativa legittima, senza garanzia di successo. Cosa succede quando le aspettative legittime falliscono? Nulla, almeno dal punto di vista della riproduzione dell’ordine del mercato, il quale, si ricorda, è intrinsecamente dotato della capacità evolutiva di modificare le regole che perdono efficacia. In tal modo, l’ordine di mercato si definisce, finalmente per Hayek, come un insieme di economie interconnesse le cui attività non sono rivolte a soddisfare fini gerarchicamente disposti, ma a far coincidere le aspettative, pur producendo sistematicamente il fallimento di alcune. Affinché nell’economia di mercato qualcuno goda, qualcun altro sistematicamente deve soffrire. Mors tua vita mea.

 Attenzione però. Hayek elabora un discorso ideologico, cioè utilizza una scala valoriale nella sua esposizione, pertanto, seleziona dalla riflessione di Locke solo ciò che gli interessa. Scrive in anni tumultuosi, rimane negli Stati Uniti d’America fino al 1962, poi torna in Europa e pubblica l’opera tra il 1973 ed il 1979, nel frattempo si aggiudica il premio Nobel per l’economia. Davanti a sé ha l’immagine dei moti del ’68, le lotte per i diritti degli afroamericani, le manifestazioni contro la guerra del Vietnam. Il suo intento polemico è costruire un discorso in cui si decreti l’impossibilità della solidarietà tra persone per cambiare la realtà, per lottare a favore di un’alternativa. Per Hayek, la società è un insieme di individui che non solidarizzano tra loro, che non sono capaci di collettivizzare una questione. Nel 1987, Margareth Thatcher, premier inglese, dirà in una celebre intervista: «there is no such thing as society. There are individual men and women, and there are families».

 Proprio sulla mancanza di una soluzione pratica, di una exit strategy, di una “regola d’azione”, per chi non soddisfa il suo fine individuale, quello di vivere dignitosamente ad esempio, si registra la distanza da Locke. Si può dire che, per Hayek, alcune libertà d’azione sono sacrificabili senza provocare alcuna rivolta, né collettiva né individuale, e senza introdurre alcun rapporto di dominio tra individui che beneficiano dei risultati e altri che li subiscono. Nel suo discorso non c’è traccia della dominazione e dello sfruttamento: le lotte non hanno senso di esistere, sono squalificate. 

Continuando la riflessione sulle libertà individuali e le aspettative fallimentari, emerge l’indisponibilità nel discorso di Hayek di qualsiasi forma di legame sociale tra gli individui, eliminando, di fatto, ogni potenziale passaggio collettivo. Gli individui tuttalpiù «[…] collaborano fra loro soltanto per aiutarsi reciprocamente nel rispettivo perseguimento dei propri fini individuali». Come possiamo osservare, non ammette la lotta, cioè nessun individuo può proiettarsi in una dimensione politica antagonista rispetto allo status quo. Cosa accadrebbe, però, se le regolarità dell’ordine di mercato venissero sottoposte a stress di dimensioni globali in grado di dispiegare effetti nel lungo periodo? Il focus, a questo punto, andrebbe spostato sul diaframma che, inevitabilmente, si creerebbe tra le nuove regolarità e le aspettative degli individui che in qualche modo sono fondate sulle tradizioni e le consuetudini e che risultano irrimediabilmente deluse. Si potrebbe ipotizzare, cioè, che – nonostante tutto – il capitalismo industriale keynesiano abbia abituato ad un mondo di fabbriche, di benefici e servizi ed una certa stabilità: la società del benessere. Adesso non è più così. Giovani laureati, tra cui chi scrive, si formano ad alti livelli senza accedere al mondo del lavoro per cui si sono formati, dobbiamo aggiornarci continuamente, viviamo stabilmente di lavori precari, forse non avremo una pensione che ci accompagni all’altro mondo e chi non ha nulla, invece, morirà di Sars-Cov-2 oppure per una consegna in bici. Cosa succede, quindi, se la società dei consumi – per richiamare Pasolini – si trasforma, provocando il deterioramento delle condizioni materiali di una vasta fascia della popolazione che nutre aspettative legittime di vivere serenamente? L’ordine è in grado di riprodursi e assorbire questa contraddizione?

In questo senso la via d’uscita proposta da Locke è allo stesso tempo ambigua e risolutiva delle insoddisfazioni del popolo: «[…] quando il popolo è caduto in miseria e si trova esposto all’abuso di un potere arbitrario, esaltate quanto volete i suoi governanti, […] accadrà lo stesso. Il popolo universalmente e ingiustamente maltrattato è pronto a cogliere l’occasione per sbarazzarsi della soma che pesa grave su di lui». Nelle pagine successive Locke fa riferimento all’ «appello al cielo» con cui chi non ha più alcun giudice sulla terra che possa risolvere i conflitti createsi tra gli uomini, può trovare aiuto nell’ultimo giudice, cioè Dio. Per Hayek, invece, è necessario che qualcuno soccombi, senza troppo rumore e troppe pretese, soprattutto senza organizzarsi e lottare, ciò che, invece, sta accadendo in molte parti del mondo e soprattutto negli USA al grido di No Justice, No Peace!

In conclusione, la libertà nel discorso di Hayek, evidenzia scarti e continuità con il liberalismo classico di Locke. Il risultato risiede, come abbiamo osservato, nella distanza che corre tra un potenziale “appello al cielo” per uno ed un inevitabile “appello all’ordine” per l’altro. È opportuno, infine, porre l’accento sulla costruzione ideologica del neoliberalismo e sulla capacità di appianare le insoddisfazioni che potrebbero dar luogo a momenti collettivi che in Hayek non trovano voce. Soffermandoci sul carattere ideologico del neoliberalismo, possiamo sottolineare la necessità per Hayek di stabilire una gerarchia valoriale, così che la proprietà privata possa produrre aspettative legittime. Dovrebbe essere chiaro anche ad Hayek, tuttavia, che affermando l’indirizzo evoluzionistico dell’ordine, ogni valore è sottoposto a cambiamenti, compresa la libertà. Se non condividiamo l’impostazione neoliberale, possiamo decidere di combatterla, di intervenire in questo gioco, ma consapevoli che la lotta non è solo sul piano teorico, ma anche su quello valoriale. Per comprendere la travagliata storia che il concetto di libertà ha attraversato, occorre tentare di tenere insieme le connessioni che emergono dalle varie prospettive analitiche. Un’ottima sintesi, in conclusione, è quella proposta da Paolo Napoli nell’introduzione al volume degli studiosi Dardot e Laval su “La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità liberista”: «credere ancora oggi che il neoliberalismo si riduca a un’“ideologia”, a una “convinzione”, a uno “stato mentale” che i fatti oggettivi, debitamente analizzati, scioglierebbero come neve al sole, significa mancare fatalmente i termini della lotta, condannandosi all’impotenza. Il neoliberalismo è un sistema di norme ormai profondamente impresse nelle pratiche governamentali, nelle politiche istituzionali, negli stili di management». Ecco perché Hayek, oggi, non sarebbe d’accordo con le lotte.

Francesco Caiazzo

Studente di Storia, Università di Bologna, Pugliese.

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