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Il rosso e il grigio | Introduzione a Rossana Rossanda

Il pensiero e l’esperienza di Rossana Rossanda avevano ricominciato a circolare in Italia già da prima che diventassero argomento dei coccodrilli. Sebbene avesse vissuto gli ultimi anni della sua vita in maniera defilata – abitava a Parigi e si era allontanata sia dalla scena politica che da quella giornalistica – i suoi sporadici interventi erano accolti da un crescente interesse e sempre più persone si approcciavano alle sue opere e anche alla sua biografia. È possibile rintracciare due momenti emblematici: il messaggio inviato ai militanti di Sinistra Italiana in occasione del Congresso di Rimini del febbraio 2017 e la lunga intervista a Propaganda Live1 del 2018. In entrambi i casi il pubblico di riferimento era molto giovane: la vitalità delle riflessioni della Rossanda infatti non era destinata a semplici nostalgici della Prima Repubblica o del Comunismo, ma a chi poteva mettere a frutto “un secolo di elaborazione teorica e di lotte”2. Non può essere solo un caso che nell’epoca della liquidità di partiti e ideologie ci si rivolga a chi abbia invece dimostrato saldezza, scavalcando la generazione che quei partiti e quelle ideologie le ha rese liquide3.

È quanto mai raro che i personaggi politici riescano a diventare patrimonio collettivo di una nazione – la necessaria faziosità li relega in un recinto della Storia che viene frequentato solo dai compagni e dagli storici – e neanche Rossana Rossanda lo è diventata, tuttavia la chiarezza dei suoi contenuti politici e l’integrità che le è costata l’espulsione dal Partito Comunista Italiano nel 1969 dopo l’invasione sovietica in Cecoslovacchia le sono valse un posto di rilievo nell’immaginario politico italiano e hanno reso la sua voce una delle più ascoltate per l’analisi politica del Secolo Breve. Ne è testimonianza il cordoglio bipartisan che ha seguito la sua morte4, ben distante dalle frasi di circostanza. 


Prima ancora che una comunista, prima ancora che una partigiana, Rossana Rossanda è stata infatti un’intellettuale straordinaria, tra le più lucide del Novecento, autrice di articoli, saggi e traduzioni, fondatrice di un giornale (il manifesto) che dopo cinquant’anni resta ancora un punto di riferimento per la sinistra italiana. Il primo aspetto del profilo intellettuale di Rossana Rossanda a balzare agli occhi è la precisione del lessico; non si tratta semplicemente di chiamare le cose col proprio nome (sebbene negli ultimi decenni si sia sviluppato una sorta di pudore nel pronunciare addirittura la parola operaio) ma di un’identità tra significante e significato che se da un lato a volte renderebbe necessario consultare un glossario per comprendere pienamente i termini della teoria politica, dall’altro consente la piena trasparenza delle idee, mai sfiorate da veli di retorica. Leggere i testi di Rossana Rossanda oggi è un’attività forse anacronistica ed un esercizio di lentezza che si oppone alla retorica dei tweet.


Appare purtroppo anacronistica anche la concezione che ha della politica: Rossana Rossanda considerava la politica un’educazione sentimentale, un’opportunità di crescita che passa dal comprendere il sentire del prossimo, dal tentare di risolvergli i problemi. Numerose pagine di La ragazza del secolo scorso, la sua autobiografia, sono dedicate alla vita in sezione nella Milano degli anni ’50: dalle discussioni che duravano fino a notte fonda all’immagine dell’operaio che, finito il turno in fabbrica, indossa il vestito della domenica per presentarsi al circolo:

“Era un popolo che si unificava in nome di un’idea forse semplificata della società, fra dubitose domande e meno dubitose risposte; ma mentre ogni altra comunicazione spingeva a una privata medietà, il partito si sforzava ossessivamente a vedersi nel mondo e vedere il mondo attorno a sé. La sezione di Lambrate sentiva, a giornata di lavoro chiusa, quel che aveva detto Truman, quel che succedeva a Berlino, lo confrontava con quel che aveva colto a sprazzi dalla radio, sapeva dov’erano Seul o Portella della Ginestra – l’ignorante non era disprezzato, ma neppure adulato, era la borghesia a volerci ignoranti, l’imperialismo, i padroni. Osservando quei visi in ascolto, pensavo che a ciascuno la sua propria vicenda cessava di apparire casuale e disperante, prendeva un suo senso in un quadro mondiale di avanzate e ripiegamenti. Seguiva il dibattito. Non era mai un gran dibattito. Quando uno prendeva la parola per contestare – sempre da sinistra, il partito nuovo appariva concessivo – non solo dal tavolo del relatore scattava un riflesso di difesa della linea: tutto ma non dividere quell’embrione di altro paese, non tornare atomizzati nel quartiere, soli in fabbrica.”5 

Rossana Rossanda non è stata una predestinata della politica: ne è stata estranea fino a quando il richiamo non è stato troppo forte da poterlo ignorare. I capitoli iniziali dell’autobiografia sono dedicati alla sua infanzia e non tracciano il profilo di una famiglia di antifascisti. Le situazioni e gli atteggiamenti narrati sono in molto affini a quelli descritti da Natalia Ginzburg in Lessico Famigliare: è la quotidianità di una famiglia borghese di inizio Novecento alle prese con l’abbagliante nascita della società di massa, la quotidianità di una bambina spigliata e affettuosa. Attraverso gli aneddoti dell’infanzia emerge subito una fondamentale riflessione su ciò che è stato il fascismo in Italia e sul perché fosse riuscito a radicarsi con tanta profondità. Da parte della famiglia Rossanda, così come da parte di milioni di altre famiglie, non ci fu condivisione, non ci fu accondiscendenza: ci fu quello che riprendendo il titolo di una raccolta di saggi di Liliana Segre si potrebbe definire il mare nero dell’indifferenza. A differenza della Segre, il colore a cui Rossana Rossanda fa riferimento è il grigio, il colore di chi non prende posizione: “Sono i grigi che fanno un paese, chi non conta tace, subisce, o anche applaude ma aspetta che passi. Si avvezza a credere che passerà, che stia passando. Bisogna che abbia l’acqua alla gola per ammettere l’irreparabile”.


Per quanto il regime tentasse di controllare ogni ambito della vita italiana, esso tentava di manifestarsi nella veste meno politica possibile: l’obiettivo era giungere a una totale identificazione tra Stato e Fascismo, come se una colata di cemento potesse investire l’intera popolazione rendendola omogenea. Efficace metodo di aggregazione era l’imponente apparato di spettacoli e propaganda. La memoria corre alla folla che attende Mussolini in Amarcord di Fellini: il sincero fervore della Gradisca non era dettato da una reale adesione al fascismo, ma allo Stato che esso rappresentava. Infatti, i ricordi di Rossana Rossanda legati al Ventennio non hanno colore politico: fascismo erano le parate, i saggi di ginnastica, “le massaie rurali e la festa degli alberi”, dietro Faccetta Nera non si intravedeva le crudeltà dell’imperialismo italiano ma solo “una musichetta accattivante”; “Mi piacque la divisa da giovane fascista, era il mio primo tailleur con camicetta e cravatta. Con le stesse carte ci si iscriveva alla tal classe e alla categoria di giovane italiana o giovane fascista. Non era un gesto, sarebbe stato un gesto dire: ‘No, io no’. Non mi venne mai in mente”. E anche la scuola, quando non era palcoscenico di propaganda, era svuotata del suo ruolo formativo, divenuta luogo di sottintesi e omissioni necessarie al quieto vivere.6 

Amarcord, Federico Fellini

Quando la Rossanda ha capito che la politica fosse “storia in atto” la sua vita è cambiata. Era il 1942. Scrive, all’inizio del quarto capitolo: “Ce n’è voluta per mettermi spalle al muro. Quasi tre anni da quella spartizione della Polonia che allontanai come cosa della Germania, centrale e forte quanto noi eravamo laterali e deboli”. Prima dell’antifascismo la quotidianità di Rossana Rossanda si svolgeva su un binario parallelo a quello della storia; tutto cambiò quando, iscrittasi all’Università, si rese conto della necessità di schierarsi:

 “All’università i tempi rombavano, affluivano giovani e ragazze per sapere qualcosa, sentirsi, era un porto franco; dove altro trovare un luogo, se non in quei corridoi, nel cortile, sulla strada davanti? Ora si doveva scegliere. Scegliere una parte. Andare in montagna – qualcuno doveva saper come fare, chi contattare – o stare ai proclami di ricostituzione dell’esercito sotto il comando tedesco. […] Bisognava chiudere con l’Italia, la sola che avevamo veduto, dove il confine tra fascismo e non fascismo era stato incerto, ora lo sapevamo, e senza la guerra sarebbe durato. […] Non so come mi resi conto che i più sicuri di quel che facevano erano i comunisti”.

Iniziò a informarsi, a studiare la teoria, a leggere le opere di Marx, Laski e Lenin, e, dopo aver incontrato sul tram tre operai, dopo averli visti “sfiniti di fatica e di vino, malmessi – non li avevo mai guardati, il mio mondo era altrove”, compì la definitiva scelta: diventare parte attiva della Resistenza. Riuscì a far evadere un partigiano dal carcere, trasportò valigie e pacchi per tutta la Lombardia – nome in codice: Miranda. Fu l’inizio della storia che la portò ai vertici del Partito Comunista Italiano. Le fu affidato un ruolo centrale nella politica culturale del Partito: innanzitutto diresse la Casa della Cultura di Milano, a partire dal 1962 fu chiamata a Roma come responsabile della sezione culturale, a dicembre 1963 fu eletta parlamentare. A quel periodo risale un aneddoto parecchio indicativo di quella che era la vita di un politico comunista negli anni Sessanta e soprattutto significativo per il futuro politico della Rossanda:

“Lo trovai (Gian Carlo Pajetta, ex parlamentare del PCI) la sera del 24 dicembre a Milano, mentre rientravo a casa in fretta dalle spese natalizie, vagante per le strade semideserte della vigilia. Dove vai? Cerco una trattoria. Come, una trattoria? Perché no? Tu sei una che fa il Natale come vuole la chiesa? Giancarlo era caustico, più era malandato più frecciate scoccava. Lo conoscevo abbastanza da non farmi provocare. Aspetta un momento. Telefonai a Rodolfo: C’è Pajetta che è solo come un cane, lo porto su? Be’, rise, portalo. Fu davvero uno strano Natale, perché dopo le solite conversazioni su questo e quello Giancarlo, che s’era come lasciato andare nell’atmosfera tiepida di noi tre, uscì con le sue visioni più distruttive delle cose. Questo non andava, quell’altro era un cretino, e in ogni caso l’essenziale del partito era perduto. Mi ero stufata di sentire cose simili dai dirigenti, magari amichevoli sul piano personale, che usavano tutto il loro potere per frenare noi, giovani leoni. «Se la pensi così perché non lasci, non ti togli di mezzo? Perché difendi sempre quello che è, e impedisci a noi di cambiare?» Il noi era inequivocabile, i giovani di Milano, i sindacalisti di Torino e sullo sfondo, a Roma, Ingrao.”7 

Si era ormai creata una spaccatura, sempre più profonda, tra la generazione di Rossana Rossanda e quella che la precedeva, tra l’ala movimentista che faceva riferimento a Pietro Ingrao e l’ala riformista di Giovanni Amendola. L’anno della rottura definitiva fu il 1969, in concomitanza con le mobilitazioni studentesche e l’invasione sovietica della Cecoslovacchia. Nel mezzo delle manifestazioni studentesche, la Rossanda pubblicò il saggio L’anno degli studenti in cui esprimeva totale adesione nei confronti delle rivendicazioni dei gruppi, che nella maggior parte dei casi non aderivano al PCI. L’allora militante della Federazione Giovanile del PCI Massimo D’Alema ha riconosciuto che “se il PCI non ha avuto verso il Sessantotto l’atteggiamento autodistruttivo dei comunisti francesi è dovuto in parte proprio a lei” e che “Rossanda ha esercitato un’influenza importante sul modo in cui la sinistra politica ha saputo misurarsi col movimento, che ha consentito a una parte di quella generazione di avvicinarsi alla sinistra italiana. Nella sua visione, poi, occorreva certamente accelerare di più nel senso di una maggiore revisione e innovazione culturale. Paradossalmente, però, pur avendo spinto la critica al partito fino alla consumazione della rottura, è a quella stessa influenza che si deve l’apertura del PCI al Sessantotto.”8              


Come già anticipato, la seconda causa della divisione furono le aspre critiche alla politica dell’Unione Sovietica: il Partito aveva un legame ideologico e economico con l’URSS e i tempi non erano ancora maturi per il disallineamento. Nel 1969 insieme ai compagni Luigi Pintor, Valentino Parlato e Lucio Magri fondò la rivista mensile il manifesto, che divenne presto una corrente del PCI, una voce eterodossa sempre più sgradita dal Comitato Centrale. La definitiva rottura avvenne a seguito della condanna, da parte del gruppo del manifesto, dell’invasione sovietica in Cecoslovacchia (“La nostra vicenda precipitò con il numero dei manifesto del settembre 1969 che portava, nell’anniversario dell’invasione, un editoriale dal titolo Praga è sola“. Venne giù il mondo. Fu riconvocato un comitato centrale e chiese formalmente la chiusura della rivista, rimettendo alle federazioni di decidere”9). Nell’introduzione del saggio francese del 1971 il manifesto, Analyses et thèses de la nouvelle extrême gauche italienne10, Rossana Rossanda sintetizza con semplicità i momenti dell’espulsione:

“La storia del manifesto è la storia di una dissidenza comunista. Si conoscono i fatti. Per la prima volta a partire dal 1929, una crisi è scoppiata nel comitato centrale del più grande partito comunista d’Europa, il PCI. Nella primavera del 1969, tre membri del comitato centrale – Alto Natoli, Luigi Pintor, Rossana Rossanda – e un giovane teorico del Nord, Lucio Magri, decisero di pubblicare una rivista politica e teorica sviluppando le posizioni e le analisi che avevano presentato al XII Congresso del Partito e che avevano motivato la loro astensione dal voto sulla mozione finale. Dopo una vasta discussione e dopo tre sedute del comitato centrale (a fine giugno, a metà ottobre e a fine novembre), essi sono stati radiati dal partito.”11 

L’epilogo di La ragazza del secolo scorso coincide con l’espulsione della Rossanda dal Partito, ma non significa che la sua parabola si fosse conclusa in quel momento. Parte fondamentale delle successive opere di Rossana Rossanda è stata la spiegazione delle motivazioni della rottura con il PCI, cercando di offrire la sua analisi del movimento operaio italiano12, ma anche di quello studentesco e femminista, fino al declino dell’Unione Sovietica e al tramonto dell’ideologia comunista. 
Riferendosi agli eventi che l’hanno vista protagonista, Rossana Rossanda pronunciava frequentemente il termine “sconfitta” – e basta darsi un’occhiata intorno per comprendere che il Ventunesimo Secolo è ben diverso da come se l’era immaginato – eppure anche le interviste più recenti lasciavano trasparire, se non fiducia, almeno tenacia. D’altronde, il suo sguardo era rivolto innanzitutto verso le generazioni più giovani, con l’obiettivo di “essere il ponte fra quelle idee giovani e la saggezza della vecchia sinistra, che aveva avuto le sue ore di gloria”13.


1. http://www.la7.it/propagandalive/video/propaganda-live-intervista-a-rossana-rossanda-29-10-2018-254239

2. https://ilmanifesto.it/la-lettera-a-sinistra-italiana/

3. È il caso recente del vasto seguito di politici anziani come Sanders e Corbyn.

4. https://www.adnkronos.com/fatti/politica/2020/09/20/rossanda-berlusconi-voglio-rendere-onore-alla-sua-memoria_0Rd1xrELLP8BsGAj2ZKTjK.html

5. La ragazza del secolo scorso, R. Rossanda, Einaudi, 2005, pagina 118

6. La Rossanda la ricorda più per le amicizie, che per gli insegnanti, e in un brano memorabile racconta di quando, da bambina più disinvolta delle sue coetanee, spiegava alle compagne di classe cosa fosse il ciclo mestruale, “non erano informate, ne aiutai un paio a riprendersi quando uscivano verdi dal bagno. Ma che madri, mi dicevo con giudizio, non come la mia. E le indottrinavo. Tutto bene, su, coraggio, e lavatevi, lavatevi. La vulgata era che in quei giorni l’acqua faceva male, mentre io avevo avuto la consegna opposta”.

7. La ragazza del secolo scorso, pagina 252-53

8. Il manifesto, 22 settembre 2020

9. La ragazza del secolo scorso, pagina 377

10. 1971, edizioni Seuil, consultabile gratuitamente online

11. Traduzione a cura dell’autore dell’articolo.

12. celebre e controverso fu l’editoriale del 1978 Album di famiglia all’epoca del Caso Moro, in cui offriva una prospettiva inedita circa le Brigate Rosse affermando che “chiunque sia stato comunista negli anni Cinquanta riconosce di colpo il nuovo linguaggio delle BR” e scatenando un acceso dibattito con l’Unità di Emanuele Macaluso.

13. La ragazza del secolo scorso, pagina 385

Vito Ladisa

23 anni, studente di Filologia Moderna all'Università di Bari.

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