La naturalezza dell’incanto: viaggio nel Sudamerica del realismo magico
Nell’incipit risuonano le parole che ogni lettore attendeva e porterà con sé: <<Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendía si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio>>.
Cent’anni di solitudine nasce e già si mostra come un autentico miracolo: sembra quasi che Gabriel Garcia Marquez stia semplicemente riportando una storia eterna, un racconto che esisteva già prima che l’uomo fosse nato. La prima frase scorre e subito conduce il lettore nella cittadina amazzonica di Macondo – dove <<il mondo era così recente, che molte cose erano prive di nome, e per citarle bisognava indicarle col dito>> – lo introduce alle meraviglie degli zingari, alle straordinarie scoperte di Melquiades e agli esperimenti del patriarca Josè Arcadio Buendia, fino a sedurlo con il formidabile racconto della scoperta del ghiaccio. Il romanzo perde peso, improvvisamente sublima; ogni immagine restituisce dettagli fiabeschi, ma raccontati con tale naturalezza e leggerezza da trasportare anche il più scettico dei lettori nell’etereo mondo della magia.
Gabriel Garcia Marquez, così come Isabel Allende e Jorge Luis Borges sanno bene che la magia è innanzitutto negli occhi di chi la guarda, e dunque tratteggiano universi senza tempo, silenziosi, sghembi. Il realismo magico di questi autori è innanzitutto mitologia popolare: i loro personaggi considerano il soprannaturale – la cartomanzia, gli infusi magici, gli spiriti – come un fenomeno quotidiano.
Paradossalmente, questa mitologia ricompare in un’opera assolutamente di non-fiction come l’autobiografia del cantore argentino Atahualpa Yupanqui El Canto del Viento. Egli racconta di come la sua vita e le sue opere si muovano in un continente incantato, dove è la Pampa a dettare le storie e dove è compito dell’uomo raccoglierle e trascriverle. E questo è il filo che conduce l’umile cantore della milonga solitaria al Gargano, dove Matteo Salvatore – cantastorie analfabeta e figlio di braccianti – accumulò, ripropose e rese celebri i canti dolorosi e magici del Meridione. Negli anni sessanta e settanta il suo lavoro suscitò l’ammirazione e l’interesse di una vasta schiera di intellettuali, tra cui Italo Calvino e l’etnologo e storico Ernesto De Martino. Proprio De Martino diede un contributo immenso alla raccolta e trascrizione della mitologia meridionale, riportando e analizzando, nella sua opera Sud e Magia, i rituali e le credenze di Puglia e Basilicata. Il Rito, la Formula Magica e la Fattura, sono raccontati come fattori quotidiani della vita dell’intera collettività, e la comunità diviene erede e portavoce di tradizioni secolari.
È probabilmente questo il motivo per cui i maggiori capolavori di questo genere siano saghe familiari come Cent’Anni di Solitudine e La Casa degli Spiriti. I personaggi di queste opere hanno accumulato i destini e le leggende dei loro antenati e le trascinano con sé. Proprio per questa ragione hanno un ruolo nevralgico i diari e gli scritti del passato: il romanzo di Gabriel Garcia Marquez si sviluppa e trova compimento nei libri di profezie dello zingaro Melquiades, mentre quello di Isabel Allende si realizzerà nei manoscritti della matriarca Clara la clarovidente. Il romanzo della scrittrice cilena rappresenta un meraviglioso caso di realismo magico in quanto la vicenda si intreccia con la storia del suo paese, con il golpe di Pinochet del 1973, l’inizio del regime militare e la crudele repressione delle opposizioni politiche.
In questo scenario di modernità, la magia non perde colore, e quand’anche personaggi come Esteban Trueba o i suoi figli sembrano troppo presi dalla cruda realtà per dare importanza a spiriti e apparizioni, ecco che subito sono immersi nuovamente nell’incanto usuale.
Questo rapporto con lo straordinario ha un illustre precedente nell’opera di Franz Kafka, in particolare nei temi dello straniamento e del perturbante – unheimlich. Nessuno, ne La Metamorfosi, si domanda perché il commesso viaggiatore Gregor Samsa si sia incredibilmente trasformato in un mostruoso insetto; i suoi familiari e il Procuratore vivono il suo mutamento in maniera ordinaria, interessati piuttosto al fatto che Gregor ritorni al più presto a lavoro. Kafka riesce, in questa maniera, in un duplice intento: concentrarsi esclusivamente sull’alienazione e sulla solitudine del protagonista e anche creare il senso di turbamento e ansia che spinge il lettore a proseguire nel racconto.
Il realismo metafisico kafkiano, questa costante presenza di allegorie vuote, sarà una delle principali fonti di ispirazione per Jorge Luis Borges. Lo scrittore argentino farà raggiungere alcune delle più alte vette della letteratura sudamericana con i suoi racconti brevi. Basta pensare a La Biblioteca di Babele, simbolo della natura informe e caotica dell’universo e del destino, o a Historia de los dos reyes y los dos laberintos, in cui la vendetta di un re – imprigionato e umiliato nel ricco labirinto di un sovrano straniero – sarà condurre il suo nemico nel deserto, “labirinto senza porte né muri”.
Scorrere le pagine di Borges è come muoversi dentro i quadri di Giorgio De Chirico – tra personaggi manichini, paesaggi scarni e primordiali e, soprattutto, nella costante attesa dell’Altro.