Arti visive,  Cinema

“Stupenda e misera città”, La Roma di Pasolini in Accattone

<<Erano giorni stupendi, in cui l’estate ardeva ancora purissima, appena svuotata un po’ dentro, dalla sua furia. Via Fanfulla da Lodi, in mezzo al Pigneto, con le casupole basse, i muretti screpolati, era di una granulosa grandiosità, nella sua estrema piccolezza; una povera, umile, sconosciuta stradetta, perduta sotto il sole, in una Roma che non era Roma>>

– Pier Paolo Pasolini a proposito delle riprese di Accattone («Il 4 ottobre» in Il Giorno, 16 ottobre 1960)

Il 2 Novembre 2021 ricorrerà il 46° anniversario della morte di Pier Paolo Pasolini: poeta, scrittore, critico letterario, cineasta. La sua vicenda umana e artistica si intreccia strettamente con la storia, urbanistica sociale e culturale della città di Roma, soprattutto della sua periferia, dei suoi quartieri popolari, inesauribili sorgenti d’ispirazione artistica, ai quali Pasolini ha dedicato le sue pagine e le sue immagini migliori. 

Pier Paolo Pasolini esordisce alla regia nel 1961 all’età di 40 anni con “Accattone”. Dapprima poeta e studioso, intraprende la carriera di sceneggiatore avvicinandosi al cinema grazie a Mario Soldati e Fellini al quale scrisse la sceneggiatura sia de “Le notti di Cabiria” che de “La dolce vita”. L’approdo di Pasolini alla regia è il compimento di un percorso artistico di ricerca, nell’esausto tentativo di aderire e trovare una sostanza ultima della realtà. Consapevole di essere cinematograficamente analfabeta (motivo per il quale Fellini rifiuterà di produrre “Accattone”), lo scrittore bolognese giunge comunque al primo ciak di “Accattone” nell’ottobre del 1960 in via Fanfula da Lodi: una fotografia scattata da Tonino Delli Colli ritrae l’istante preciso in cui Pasolini indica a Franco Citti i gesti e i movimenti ai quali si dovrà attenere; accanto a lui, in piedi, un giovanissimo aiuto-regista alla sua prima esperienza cinematografica: Bernardo Bertolucci, allora appena diciannovenne.

A Roma Pasolini s’innamorò delle borgate sottoproletarie, tanto degradate quanto vitali, tanto vittime della povertà quanto ribelli alle convenzioni borghesi, all’etica del lavoro inteso come sfruttamento. Vi ambientò dei romanzi (“I ragazzi di vita”, “Una vita violenta”) e delle sceneggiature, nonché  quest’esordio registico, ricordandosi, per coerenza, che non si poteva “sacralizzare” uno stile di vita, un modo di essere magnificamente “rozzo”, senza cucirgli addosso anche il linguaggio cinematografico che, infatti, alterna l’orgogliosa schiettezza dell’inesperienza, all’ingegno del neofita non contaminato dagli schemi. Al centro del film, troneggia un personaggio assoluto: Cataldi Vittorio, detto Accattone, che non compie alcun percorso di presa di coscienza politica, ma al contrario da un punto di vista strettamente marxista, Accattone assume come dato di fatto il carattere irrecuperabile del sottoproletariato in un’Italia nel periodo del miracolo economico. Il regista si distanzia dai personaggi cercando di far avvertire la sua presenza attraverso la costruzione di uno stile riconoscibile. Da parte di Pasolini c’è un lavoro definito sulla composizione dell’inquadratura, essa è considerata una sorta di quadro che rimanda alla pittura tre/quattrocentesca toscana, citando in particolare i maestri come Giotto e Masaccio. 

Una sequenza in particolare, infatti, provoca nello spettatore un angoscioso senso di scoramento, di desolazione, una sorta di amaro pre-sentimento della tragica fine riservata all’ignaro e involontario protagonista della vicenda che si dipana attraverso scarne e a volte brutali immagini in bianco-nero. E’ quella nella quale si vede un assonnato e disperato Franco Citti (nella parte del “pappone” Vittorio Cataldi, detto Accattone) percorrere lentamente – quasi trascinasse il suo corpo, con gli occhi semichiusi per i riflessi di un sole inclemente che si fa strada a fatica nella polverosa periferia romana – la squallida e solitaria via Formia proveniente dalla Borgata Gordiani e diretto verso il Pigneto dove è presente il baretto del Necci, abituale ritrovo di Accattone e dei suoi amici. A sottolineare la disperata andatura di Accattone e ad accrescere la sensazione d’angoscia nello spettatore, sono le note della “Passione di Matteo” di Bach, uno dei brani prediletti da Pasolini, da lui utilizzato anche in altri suoi successivi film.

Le immagini di Pasolini sono grandi affreschi sulle borgate romane: esse acquistano una liricità nobile che fa da sfondo e contrasto con la grettezza e la materialità dei personaggi che in esse si muovono. Sulla pellicola viene rappresentata un’umanità allo sbando, meschina, che campa alla giornata vivendo di espedienti e furti. Questa efferata lotta alla sopravvivenza si svolge tutta nell’urbanità degradata delle borgate romane, che viene attraversata ed esaltata dai frequenti e prolungati carrelli. C’è una predilezione del regista per le periferie est della città: Casilino, Prenestino, Tuscolana, Appia Nuova; la Roma monumentale non appare mai, se non in rare occasioni. Se Fellini ne “La dolce vita” puntava sul barocco per costruire la dimensione onirica e personale della città (basti pensare alla scena della fontana di Trevi), Pasolini ignora la dimensione più spettacolare dello spazio urbano: il décor architettonico è immobile e scarno fra le case scrostate delle borgate, il biancore anonimo dei palazzi moderni, i ruderi abbandonati di un’antichità primaria e perduta.

Questi filtri figurativi, si rivelano nell’idea di inquadratura associata a quella di una cornice contenente informazioni visive, infatti Pasolini tende a sacralizzare l’immagine ricercandone la plasticità. Non a caso il regista parlerà di fondo e non di paesaggio, ponendo tendenzialmente le figure in modo frontale; esse, si muovono in maniera simmetrica: primo piano contro primo piano, panoramica di andata contro panoramica di ritorno. I ritmi di ripresa sono molto irregolari, gli stacchi tra un’inquadratura e l’altra sono bruschi, i movimenti di macchina sono limitati quasi esclusivamente a panoramiche piene di soste, sia sui paesaggi che sui volti (si pensi alla scena del commissariato sui possibili aggressori di Maddalena) definite anche “Panoramiche a Stazioni”. Sarà proprio per questo che Pasolini rifiuta il piano-sequenza preferendo inquadrature di breve durata da comporre al montaggio. È anche per questa scelta stilistica che Leo Catozzo (montatore di Fellini) declinò il prodotto di prova per la produzione di “Accattone”, affermando che era impossibile montare quello che Pasolini stava girando. 

In Accattone ci sono anche rimandi danteschi. I borgatari, sottoproletariati e magnacci, somigliano ai dannati delle bolge: dannati puri, delinquenti-innocenti che ridono del mondo ma soffrono della loro inutilità. Il protagonista Accattone è definito dallo stesso regista: <<un morto vivente, un angelo caduto dal cielo>> simbolica a tal proposito è la scena del tuffo nel Tevere dove la statua dell’angelo con la croce in mano fa da sfondo, come se sfidasse la morte.

Accattone fu il primo film, nella storia della cinematografia italiana, ad essere vietato ai minori di anni 18 e ciò, a dispetto della censura, contribuì notevolmente al suo successo di pubblico. Così come convinse lo stesso autore a insistere nella sua carriera di cineasta: pochi mesi dopo, tra la fine del 1961 e gli inizi del 1962, Pasolini infatti comincia a girare, insieme a una splendida Anna Magnani, Mamma Roma, la storia di una prostituta che cerca disperatamente, ma inutilmente, di uscire dalla strada mediante l’acquisizione e la gestione di un banco di frutta e verdura al mercato rionale del Quadraro.

Antonio Nicolì

21 anni, studente di scienze della comunicazione, appassionato di arte in tutte le sue forme, specialmente la settima.

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