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La teoria mercantilista: oro, esportazioni e Trump

Nel 1600, dopo le esplorazioni geografiche e la formazione degli stati nazionali, si pone sempre più agli economisti la necessità di riflettere su come aumentare la ricchezza e la potenza degli stati che si vanno costituendo in quel periodo. Gli economisti allora elaborano la teoria mercantilista, che costituisce il primo passo del pensiero economico.

Innanzitutto, questi identificano la ricchezza delle nazioni con la quantità posseduta di oro e di metalli preziosi. Inoltre convengono che per accumulare maggiore oro, ciascuna nazione deve sfruttare il commercio internazionale, utilizzando l’arma delle esportazioni.

Infatti, se queste aumentano, si registra un afflusso maggiore di oro nel paese, che conduce ad un accrescimento della quantità di moneta in circolazione.

Di fronte, poi, ad una esportazione maggiore dell’importazione, l’oro ottenuto supera quello consumato, registrando un surplus (la differenza numerica tra importazioni e esportazioni). Praticamente ogni stato dovrebbe importare poco, quanto basta, garantendo così la minima uscita di oro  dal territorio nazionale ed esportare il più possibile, assicurandosi corposi afflussi di oro.

Ma come effettivamente rendere più ricca una nazione, aumentandone le esportazioni?

Il ruolo del governo – dicono i mercantilisti – è fondamentale: deve farsi carico di una politica di protezionismo e quindi intervenire sull’economia nazionale, in modo da creare il surplus commerciale (esportazioni > importazioni).

Solitamente il protezionismo si attua con due provvedimenti: i dazi sulle importazioni e i sussidi alle esportazioni.

I primi sono un’imposta sui consumi gravante sulle merci che provengono da stati esteri. Aumentando il costo finale di tali merci, il paese che impone i dazi induce i consumatori a preferire i prodotti nazionali meno costosi a quelli esteri. In pratica accade che se il grano estero normalmente costa 1 e quello nazionale 2, i dazi portano il prezzo di quello estero a 3, facendo sì che i consumatori acquistino quello nazionale perché più conveniente.

I sussidi alle esportazioni, invece, consistono in bonus governativi alle imprese per ogni unità esportata all’estero; così facendo, il produttore può abbassare il prezzo ed essere più competitivo nel mercato internazionale, tenendo invariato il suo profitto.

Tuttavia, tale politica favorisce le imprese e non i consumatori. Infatti non essendoci concorrenza al di là delle mura nazionali, il valore di mercato dei beni risulta il maggiore possibile. Inoltre, con i sussidi alle esportazioni diminuisce sì il prezzo dei beni, ma solo all’estero: in territorio nazionale rimane quello stabilito dai provvedimenti governativi.

Per i suoi evidenti problemi logici, la teoria mercantilistica è stata criticata aspramente da Hume.

Il filosofo ha evidenziato come sia impossibile mantenere il surplus (esportazioni > importazioni) in maniera permanente (costante nel tempo). Infatti, il Paese estero Y, che vede i suoi prodotti tassati dal Paese X, risponde ovviamente allo stesso modo: pone dazi sulle importazioni del Paese X. Così facendo, è inevitabile che nessuno dei paesi coinvolti nella competizione registri il surplus commerciale: si registra, invece, il ristabilimento dell’equilibrio economico.

Inoltre, Hume analizza una questione fino a quel momento trascurata: l’aumento di oro e il suo continuo afflusso sul territorio nazionale conducono ad un accrescimento dell’offerta di moneta, per cui circola una quantità maggiore di moneta, che i consumatori sono disposti a spendere. Di conseguenza cresce la domanda dei prodotti, che registrano un inevitabile aumento dei prezzi, secondo il meccanismo dell’inflazione, per cui appunto se il denaro in circolo aumenta, il valore della moneta si riduce e si innalzano i prezzi dei prodotti. A questo punto si riprendono le importazioni di prodotti esteri meno costosi di quelli nazionali e le esportazioni calano. Il risultato è che il surplus si azzera anche in questo caso.

Nonostante siano ormai superate, le teorie mercantilistiche sono tornate in auge con Donald Trump, da qualche mese Presidente degli Stati Uniti d’America. Infatti, un punto del suo programma è quello della tassazione delle importazioni.

Può farlo? Sì, ma sarebbe più complicato rispetto al passato e maturerebbero effetti “nuovi” causati dal moderno assetto economico, in cui si registra l’internazionalizzazione della produzione. Quest’ultimo è il fenomeno per cui le aziende non stabiliscono la loro produzione in un’unica nazione: è più probabile, invece, che le fasi produttive si svolgano in paesi diversi.

Analizziamo ad esempio la questione relativa ai rapporti tra USA e Messico: al momento persiste il libero scambio. Se il governo Trump ponesse dei dazi sui prodotti messicani, le aziende degli Usa che hanno fasi di produzione in Messico sarebbero costrette ad una scelta: trasferire interamente la produzione negli USA o mantenere la produzione in Messico con tutti i rischi annessi. Nel primo caso, l’azienda dovrebbe apportare modifiche strutturali e sicuramente dispendiose. Nel secondo, invece, le aziende rimarrebbero sì in piedi, ma senza un’importante fetta di mercato internazionale, quale quella degli Stati Uniti d’America. Se a causa di questa scelta, prima o poi l’azienda subisse un tracollo economico-finanziario, gli effetti negativi ricadrebbero anche sugli Usa: gli operatori della stessa impiegati nel paese perderebbero il posto di lavoro con conseguente disoccupazione.

I mercantilisti con la loro teoria smuovono le acque sino a quel momento immobili; il prossimo step è quello dei Fisiocratici: la terra, l’agricoltura, le classi sociali. Ma ne parleremo la prossima volta…

Roberta Muri

23 anni, pugliese, studentessa di Economia a Verona.

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