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“D’azzardo” o “responsabile”: il gioco dello Stato

Milleottocentotrentuno euro. Non è un numero a caso. Dovrebbe, invece, essere tenuto a mente. Perché? È il valore medio della spesa pro-capite in giochi d’azzardo in Italia nel 2019. È come se ogni italiano – ognuno di noi, nessuno escluso – in un anno avesse speso in giochi d’azzardo milleottocentotrentuno euro. Si tratta di un’emergenza? Scialbi numeri non possono decretarlo, considerato il fatto che il fenomeno del gioco d’azzardo risulti anche in costi (e benefici) sociali, diretti ed indiretti, così come in introiti erariali. Sicuramente, gli stessi numeri a prima vista destano preoccupazione per l’ampia portata, assieme al fatto che l’accesso ai giochi d’azzardo sia davvero agevole ed immediato. Basti pensare al gioco online ed alle slot machines, relegate in sale slot e sale bingo fino al 2003, ed oggi presenti anche in bar e ristoranti, luoghi per eccellenza di socialità e convivialità.

Prospetto in numeri del settore “Giochi” in Italia nel 2019, fonte Libro Blu 2019, Principali Performances, Agenzie delle Dogane e dei Monopoli

I. Il gioco d’azzardo nella società e nella ricerca

    Fino a buona parte del secolo scorso, il gioco d’azzardo è stato trattato come una forma di debolezza morale, un rischio sociale, un disvalore etico-sociale, tanto da essere accompagnato da politiche di proibizionismo. Infatti, sino al 1992, in Italia, molte manifestazioni del gioco d’azzardo erano illegali, fatta eccezione per Totocalcio, Lotto e quattro casinò dislocati sul territorio italiano, cui lo Stato Italiano erogava le concessioni. Lentamente, si è iniziato a considerare il gioco d’azzardo da un punto di vista psicologico e/o psichiatrico, analizzando anche i problemi del giocatore e le sue caratteristiche sociali. Allo stesso tempo, tuttavia, di fronte a crisi finanziarie e a crescenti bisogni della spesa pubblica, il gioco è diventato sempre di più una voce del bilancio degli Stati tramite il prelievo fiscale. Così il proibizionismo ha lasciato progressivamente il posto al permissivismo. Gli Stati nazionali hanno iniziato ad incentivare il gioco d’azzardo, costruendovi addirittura un’industria. La panacea è stata la creazione di nuovi giochi legali, come i Gratta e Vinci, introdotti nel 1994, le VLT e i Casinò online in circolazione dal 2010. 

    Ad oggi, il settore italiano del gioco d’azzardo, che è il quarto al mondo ed il primo in Europa, si basa sullo Stato, che è il regolatore di un mercato costituito da licenze governative di agenti privati, che sono i concessionari, che competono tra di loro in una vera e propria industria del gioco d’azzardo. Sulla scia di nuovi studi che hanno messo in relazione gioco d’azzardo e sanità pubblica, per evidenziarne costi e benefici, anche in Italia le forze politiche hanno iniziato a parlare della necessità di una riforma sui giochi in modo da assicurare l’eliminazione dei rischi connessi al disturbo del gioco d’azzardo e contrastare il gioco illegale e le frodi a danno dell’Erario. In particolar modo, il D.L. n. 87/2018, anche conosciuto come “Decreto Dignità”, voluto dal Movimento 5 stelle, ha vietato qualsiasi forma di pubblicità, anche indiretta, relativa a giochi e scommesse con vincite e premi in denaro. Pur definito come il primo passo nella lotta all’azzardo, il divieto di pubblicità e sponsorizzazione non è stato seguito da ulteriori misure che potessero ridisegnare il sistema dei giochi.

II. Pluralità di cornici di inquadramento del gioco d’azzardo 

     Il gioco d’azzardo, inteso come fenomeno sociale, che dunque incide su struttura e aspetti della società, si contraddistingue per la pluralità di cornici di inquadramento. Infatti, se ne può parlare in termini di una questione di libertà individuale, per cui gli individui sono liberi di spendere il loro denaro in gioco d’azzardo, senza che lo Stato o il regolatore – se i due non coincidono – possano intervenire per proibirlo. Può essere definito come un’attività di intrattenimento, ricreativa, che crea piacere a chi vi partecipa. Lo si può intendere come un ascensore sociale, utile per migliorare – in caso di vincita – le proprie condizioni socioeconomiche e per ridurre il gap con i più ricchi. Ancora può essere analizzato sotto forma di proventi per lo Stato tramite il prelievo fiscale – una tassa volontaria perché pagata volontariamente da chi gioca – e tramite anche le concessioni ai vari agenti privati. Inoltre, si può considerare il gioco d’azzardo come un fattore di produzione di disuguaglianza in quanto si basa sul processo <<prendere a molti (i giocatori), per dare a pochi (i vincitori)>>1. Infine, inquadrando il tema nell’ambito della sanità pubblica, si può analizzare il gioco d’azzardo considerandone costi e benefici con il fine di elaborare strategie pubbliche. 

    Relativamente ai costi sociali, si parla di cost of illness, inteso in generale come <<le risorse economiche che devono essere utilizzate per curare un problema di salute>>2. È tripartito in costi diretti, costi indiretti e costi intangibili. I primi comprendono le spese mediche per il trattamento sanitario delle conseguenze problematiche e patologiche del gioco d’azzardo. I secondi, invece, si riferiscono ai costi relativi alle conseguenze della malattia in ambito sociale, quali la riduzione della produttività del giocatore-lavoratore sul luogo di lavoro e nelle manifestazioni quotidiane di vita, l’eventuale erogazione di sussidi di disoccupazione, i fenomeni di indebitamento, la bancarotta e l’usura, l’impegno di risorse del sistema giudiziario, sanitario e previdenziale. Infine, i costi intangibili sono i costi relativi al dolore e alla sofferenza causati dalla malattia (stato d’ansia o depressione del soggetto affetto da patologia e dei suoi familiari, distruzione di un nucleo familiare). In Italia, il “Coordinamento Nazionale Gruppi per giocatori d’azzardo” (CONAGGA) ha quantificato i costi sociali annuali da gioco patologico in una somma tra 5.5 e 6.6 miliardi, senza considerare i costi intangibili. In questa ricerca, così come nella prevalente letteratura sul tema, non si tiene, però, conto del fatto che il gioco d’azzardo sia configurato in economia come <<un moltiplicatore negativo della domanda di beni, rientrando nel novero dei cosiddetti consumi di dissipazione>>3. Infatti, il denaro investito dai giocatori è sottratto alla spesa per altri beni e servizi, sfavorendo la produzione della ricchezza nazionale. Inoltre, i giochi sono esenti dall’IVA, ai sensi del D.P.R. 633/1972, per cui vi è un mancato gettito IVA per le casse statali, che si genererebbe se gli individui destinassero la spesa in gioco d’azzardo in consumi differenti. 

    Passando ai benefici, bisogna distinguere, come per i costi, tra quelli strettamente connessi al giocatore-individuo e quelli relativi alla collettività. L’integrazione sociale, la riduzione di disagi psichici, il miglioramento di strategie di coping sono i benefici che accorrono nella sfera dell’individuo. Secondo l’economista Shaffer, il gioco d’azzardo potrebbe essere un’alternativa all’isolamento sociale e ai ritmi frenetici della quotidianità, al pari di un film al cinema o di un caffè al bar. Se i benefici individuali sono di natura sociale e psichica, quelli collettivi sono di tipo economico e legati alla industria del gioco d’azzardo, che opera sul mercato e crea posti di lavoro, andando anche a stimolare altri settori, come il turismo. In Italia, fino al 2018, le imprese del settore erano 660 con circa 100000 occupati. Non bisogna poi trascurare il dato delle entrate erariali connesse al gioco d’azzardo, che nel 2019 è stato di 11,4 miliardi, lo 0.6% del PIL italiano. L’attività del gioco ha dunque un impatto positivo sul bilancio dello Stato, anche se l’economista di Bella ha affermato che tale effetto è minimo, siccome all’aumentare di un euro della spesa in giochi, i ricavi per lo Stato aumentano di soli 6.4 centesimi, come probabile conseguenza del fatto che vi sia sostituzione tra il consumo di beni legati al gioco e il consumo di altri beni, come detto sopra.

III. Gioco d’azzardo tra distribuzione e redistribuzione

   Eventuali strategie pubbliche non possono discernere dalla distribuzione del gioco d’azzardo. La letteratura sul tema, infatti, attiva soprattutto negli ultimi anni, ha cercato di capire se la propensione al gioco d’azzardo si distribuisca in modo uniforme nella popolazione o se attecchisca maggiormente in alcuni gruppi sociali, ovvero con determinate caratteristiche. Riguardo alla correlazione tra reddito e spesa in giochi, la maggior parte delle ricerche, sia estere che italiane, ha ottenuto che la spesa in giochi in valore assoluto aumenta al crescere del reddito. La crescita è, tuttavia, meno che proporzionale, per cui i più poveri spendono una quota più consistente del loro reddito. Invece, gli studi che hanno posto in relazione il gioco d’azzardo e l’istruzione hanno evidenziato che al crescere del titolo di studio diminuiscono le probabilità di giocare. Il profilo del gambler, ovvero del giocatore con profili di rischio da moderato a grave, è perlopiù <<un individuo di sesso maschile, tra i 15 e i 24 anni, che vive con la famiglia di origine o da solo con a carico un figlio>>4. Altre caratteristiche sono: un livello di istruzione medio basso, un’occupazione come artigiano o operaio oppure, nella maggior parte dei casi, l’assenza di un’occupazione fissa, con un reddito medio basso. Essendo nel gioco d’azzardo insita una tassazione implicita tramite il prelievo fiscale sulle giocate e sulle eventuali vincite, maggiore è la spesa in gioco d’azzardo, maggiore è l’importo che si versa nelle casse dello Stato. Se a destinare una quota maggiore del reddito posseduto sono i più poveri, questi pagheranno più tasse. Ciò implica che il sistema di tassazione del gioco d’azzardo sia informato a principi di regressività (meno hai, più paghi) e non di progressività (più hai, più paghi), come invece il sistema generale di tassazione italiano. La naturale conseguenza è che il gioco d’azzardo contribuisce allora al perpetuarsi delle disuguaglianze, riproducendo disparità già esistenti. 

   Il rischio vagliato ultimamente dalla ricerca è che il gioco d’azzardo possa addirittura accrescere le disuguaglianze già esistenti, dal momento in cui è emersa una correlazione positiva tra disuguaglianza – vista tramite il “Coefficiente di Gini” – e spesa in giochi nei comuni italiani. Ne consegue che comunità con distribuzione del reddito non uniforme, in cui la differenza tra i redditi più alti e quelli più bassi è ampia, si caratterizzino anche per maggiore spesa in giochi. Nel tentativo di capirne le ragioni, una prima interpretazione potrebbe essere che, all’aumentare della disuguaglianza e quindi all’insorgere di grandi differenze socioeconomiche all’interno di una comunità, i più poveri cerchino di ridurre il gap con i più ricchi tramite anche il gioco d’azzardo, sperando nel cosiddetto colpo di fortuna. Ciò sarebbe confermato da “la prospettiva dell’anomia”, secondo cui gli individui appartenenti a classi subalterne giocano di più rispetto agli altri nella speranza di intraprendere un processo di mobilità sociale ascendente grazie ad una potenziale vincita di denaro. In questo senso, la giocata potrebbe assumere nell’immaginario del giocatore l’aspetto di un vero e proprio investimento, mirato ad ottenere un ritorno economico. Invece, “la teoria del fascino del gioco” afferma che tale propensione maggiore ha le sue radici nel fatto che nel gioco <<le probabilità di vincita sono distribuite in egual modo tra tutti i giocatori e prescindono dalla loro origine sociale>>5. In qualunque modo, l’elemento essenziale risulta essere la conflittualità, prima interiore e poi anche esteriore, vissuta dai meno abbienti a causa della disuguaglianza presente nella comunità, e che spinge loro ad agire tramite il gioco per raggiungere (quelle che reputano) condizioni socioeconomiche migliori.

    La cornice di inquadramento del fenomeno influenza il trattamento del fenomeno e le risposte alle domande: “Si rende necessario intervenire? Vi è un’emergenza? Fin dove ci si può spingere?”. La certezza è che il gioco d’azzardo possa tramutarsi in dipendenza, divenendo responsabile di danni all’individuo giocatore ed alla collettività, che si tramutano in costi sociali, ovvero in una perdita complessiva di benessere sociale. Negli ultimi anni, nel campo della ricerca, si è cercato di quantificarli per intraprendere un programma politico ad hoc, nell’area sospesa al confino tra regolamentazione da parte dello stato e liberalizzazione con conseguente commercializzazione. Infatti, il dilemma che gli Stati affrontano <<sta nel contemperare i vantaggi dal continuo flusso di risorse fiscali in entrata dal comparto giochi e gli svantaggi delle problematiche individuali e collettive connesse>>6. Riguardo a ciò, in Italia, l’operato del regolatore, che è lo Stato, è risultato contraddittorio. Da un lato sono state lanciate campagne di sensibilizzazione con lo slogan “Gioco responsabile”, che potrebbe anche risultare uno stridente ossimoro; dall’altro l’offerta di giochi è stata aumentata per cercare di aumentarne i proventi (missione riuscita a posteriori siccome la raccolta, ovvero l’importo complessivo delle giocate effettuate, è aumentata del 218% dal 2006 al 2019, così come gli introiti erariali sono aumentati del 70%).

Elaborazione su dati dei volumi Libro Blu dal 2006 al 2019.

Si può affermare con certezza che tali campagne di sensibilizzazione e prevenzione sono state fallimentari dal punto di vista del gioco patologico: negli ultimi dieci anni il numero dei giocatori d’azzardo problematici e patologici è aumentato di pari passo con la spesa in giochi. Finora, nessuna policy ha modellato trattamenti del fenomeno che tenessero conto del giocatore e delle sue condizioni socioeconomiche. La letteratura conviene che non sia più possibile trattare il fenomeno solo su base universale, come se ogni individuo ne fosse influenzato e colpito allo stesso modo, indipendentemente dal reddito, dal livello di istruzione e dalla comunità in cui vive. Alle campagne di sensibilizzazione macro, su larga scala – che ci si augurerebbe fossero svuotate di slogan poco chiari e significativi – potrebbero essere affiancate politiche micro, destinate a quei territori con le caratteristiche che la letteratura ha finora indicato come positivamente correlate alla propensione al gioco. E questo potrebbe anche tuonare come un compromesso. 


1. Sarti S., Triventi M. (2012), Il gioco d’azzardo: l’iniquità di una tassa volontaria. La relazione tra posizione socioeconomica e propensione al gioco, in Stato e mercato, 32(3), 503-534. 

2. Caneppele S. (2015), Costi sociali del gioco patologico, in Gioco d’azzardo patologico: Monitoraggio e prevenzione in Trentino, 80-93.

3. Lucchini F., Comi S. (2018), I costi sociali del gioco d’azzardo problematico in Italia, Università degli Studi di Milano Bicocca, 1-9, https://www.federserd.it/files/novita/Rapporto%20di%20ricerca%20costi%20sociali_DEF.pdf.

4. Capitanucci D. (2004), Gioco d’azzardo e salute pubblica, in Prospettive sociali e sanitarie, 7, 4-9.

5. Sarti S., Triventi M. (2012), Il gioco d’azzardo: l’iniquità di una tassa volontaria. La relazione tra posizione socioeconomica e propensione al gioco, in Stato e mercato, 32(3), 503-534. 

6. Lucchini F., Comi S. (2018), I costi sociali del gioco d’azzardo problematico in Italia, Università degli Studi di Milano Bicocca, 1-9, https://www.federserd.it/files/novita/Rapporto%20di%20ricerca%20costi%20sociali_DEF.pdf.

Roberta Muri

23 anni, pugliese, studentessa di Economia a Verona.

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